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Come restituire prestigio alla Coppa Italia

Da anni le grandi la snobbano: rimedi efficaci o meglio pensionarla
Il tutto mentre un “campionato europeo per club” è già cominciato


*****Un tempo neanche troppo lontano la Coppa Italia era importante obiettivo stagionale. Oggi è solo inutile e scomodo intralcio. Un tem-po la Coppa Italia, meno prestigiosa di campionato e coppe europee, era pur sempre una competizione rilevante, anche perché dava ac-cesso alla Coppa delle Coppe (riservata, appunto, alle società deten-trici di Coppa di Lega dei Paesi europei), torneo a sua volta meno prestigioso solo della Coppa dei Campioni (riservata, appunto, ai campioni in carica – e solamente quelli – dei campionati europei). Insomma, almeno sino alla metà degli anni Novanta, per qualsiasi club una Coppa Italia in bacheca era una gran bella soddisfazione, tanto da giustificarne caroselli e strombazzamenti per le strade.
Un tempo, il popolare ‘mercoledì di coppa’ le comprendeva tutte e tre: Campioni, Coppe e Uefa, tornei che si dividevano i migliori club europei. Poi, per farla breve, succede che campionati nazionali e Coppa dei Campioni (pardon, Champions League) prendono il soprav-vento su altre competizioni che ‘minori’ lo diventano per cause di forza maggiore o, diciamo così, per congiunture sfavorevoli.
Dal 1992-93 la Coppa dei Campioni assume una denominazione molto più intrigante, Champions League. Sostanziali modifiche: vengono accolte a braccia aperte anche le prime classificate dei principali campionati europei e, per far posto, tagliate via le squadre campioni di Paesi calcisticamente meno prestigiosi. Cioè, non che a queste ul-time si neghi il diritto di partecipare, quello no, per sbarazzarsene è sufficiente accoppiarle a luglio, scremarle ulteriormente ad agosto, finché a metà settembre, quando la competizione vera e propria prende il via (con tanto di musichetta epica), di quelle squadre non c’è più traccia. Scomparse. O meglio, dirottate in Coppa Uefa, or-mai centro di accoglienza per terzo mondo calcistico (il quale già a dicembre è estromesso anche da lì) e club delusi-depressi o minori dell’Europa che conta.
La prima competizione a farne le spese, nel 1999, è la Coppa delle Coppe, soppressa. Recentemente la Coppa Uefa si è rifatta il look, chiamandosi Europa League (e dotandosi anch’essa di un inno), ma resta il triste centro di accoglienza di cui abbiamo detto.
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Nei primi anni Novanta si cominciò a parlare di un grande campio-nato europeo per squadre di club che prevedesse la presenza co-stante delle società europee più prestigiose, cioè che non limitasse più la competizione alle sole squadre detentrici dei titoli nazionali. Infatti, così come la Coppa dei Campioni era stata pensata nei primi anni Cinquanta, solo alcune delle big potevano iscriversi ad ogni singola edizione (vien da sé che Juventus, Milan, Inter, Real Madrid, Barcellona, Manchester United, Bayern Monaco, non possono vincere tutte, sempre e contemporaneamente i rispettivi campionati), le al-tre si dividevano tra Coppa delle Coppe (ecco l’importanza di aggiu-dicarsi la Coppa di Lega nazionale) e Coppa Uefa. Chiaro che canaliz-zare le migliori squadre in una sola Coppa significa impoverire, se non mandare in malora, le altre due.
Si parlò anche di una élite aperta, con 'new entries' pronte ad ag-giungersi o subentrare di anno in anno. Con molta fantasia, potrem-mo immaginare promozioni e retrocessioni delegate ai singoli cam-pionati: come se, per esempio, un anno la Fiorentina si qualificasse in Champions (promossa, quindi) ai danni della Roma (retrocessa, quindi. Dove? In Coppa Uefa). Oppure, come se Abramovich si com-prasse un Chelsea che langue a metà Premier League e lo portasse stabilmente ai vertici del calcio europeo: new entry.
Si propose anche di aumentare il numero delle partite, abolendo la formula dell’eliminazione diretta e suggerendo gironi con partite di andata e ritorno. Sempre ricorrendo alla fantasia, potremmo imma-ginarlo come un lungo torneo che cominci a settembre per conclu-dersi in primavera dopo molteplici incontri. Proprio come se fosse un campionato europeo parallelo ai campionati nazionali.
La proposta fu accolta freddamente non solo dai più conservatori. In astratto pareva un progetto troppo futuristico e destabilizzante. E non se ne parlò più: come non detto. Al massimo, di anno in anno, alla formula è stata apportata qualche modifica, giusto necessari ritocchi qua e là. Nulla di trascendentale, piccole variazioni che si as-similano presto e diventano facilmente consuetudine.
Ma, pensandoci bene, come si presenta l’attuale Champions League? Non rispecchia esattamente la proposta iniziale subito accantonata? Sarà mica che ce l’hanno fatta a tutti da sotto al naso?
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Alla luce di ciò, di fronte ad un binomio campionato-Champions Lea-gue totalizzante e totalitario, per i grandi club l’obiettivo minimo di-venta il ‘piazzamento Champions’. E se la stagione proprio va stor-ta, non sarà certo una vittoria in Coppa Italia a raddrizzarla, o a ri-sarcirla dei consistenti introiti che una qualificazione in Champions procura (incassi, contratti televisivi, premi, indennizzo Uefa).
Ma la Coppa Italia sopravvive. Per inerzia ma sopravvive. Tira anche meno di un’amichevole d’agosto, eppure è sempre lì, incastrata tra campionato e Coppe, quasi a volersi vendicare sgambettando i gran-di eventi: intralciando il calendario, occupando i pochi giorni utili per far rifiatare i giocatori e rizollare stanchi manti erbosi, ostacolando in momenti topici, deconcentrando, riservando infortuni (ricordate il secondo crack di Ronaldo?).
Quasi tutti gli allenatori mandano in campo le seconde linee, chi in campionato e Coppa gioca poco. È così per i grandi club, ma anche per le provinciali che hanno ben altro a cui pensare (salvezza, scontri diretti). Il più delle volte, ad andare avanti sono sempre i grandi club (riserve contro riserve, il confronto resta impari), ma non è regola fissa, come invece lo è in campionato. L’Inter, per esempio, senza sforzarsi più di tanto raggiunge la finale in quattro delle ultime cin-que edizioni (due vittorie), ma succede anche che in finale arrivino outsiders quali Ancona e Atalanta, o che a vincere siano il Vicenza e la ‘Lazio low-cost’ di Lotito. Insomma, come capita, capita, e nulla fa scalpore in una manifestazione abbandonata al suo destino.
Allora, se da anni l’andazzo è questo, perché non pensionarla? Lo desiderano in tanti e, se non altro, sarebbe la soluzione più digni-tosa. Ancor più dignitosa se istituissimo anche una sorta di Giornata della Memoria affinché i giovanissimi almeno sappiano cos’era la Coppa Italia (e la Coppa delle Coppe).
Oppure, troviamo subito rimedi efficaci.
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In un’epoca in cui le riforme più stupide vengono approvate a cuor leggero (vogliamo parlare della proposta di spezzettare ulteriormen-te il campionato?), non sarebbe un’idea malsana riservare un posto in Champions League anche alla vincente della Coppa Italia: baste-rebbe ciò per restituire alla Coppa competitività, interesse, copertu-ra dei media e stadi pieni. Con il minimo si otterrebbe il massimo.
Quest’anno la Juventus è già tagliata fuori da campionato e Cham-pions League, ma la catastrofe sarebbe completa se non riuscisse a raggiungere neanche il fatidico e indispensabile ‘piazzamento Cham-pions’. Eppure, nel disinteresse quasi generale, è ancora in corsa per la Coppa Italia. Allora, perché nella tanto bistrattata coppetta non tifare proprio per i simpatici gobbetti? Innanzitutto, così facen-do auto-sponsorizzeremmo la nostra mozione (non si sa mai che la proposta di far accedere in Champions League anche la detentrice di Coppa di Lega venga magicamente accolta – battuta di spirito con-tando su senso dell’umorismo dei tifosi bianconeri). E poi, scherzi a parte, per darci una risposta ad un quesito che ci poniamo da tem-po: se a chi vince dieci scudetti va una stella sul petto, a chi vince per dieci volte la Coppa Italia (e la Juventus è a quota nove) quale corpo celeste va? O forse, allo stato attuale delle cose, va un asso di picche?