domenica

Caro Nereo, ne sono passati trenta

L’anniversario della scomparsa di Rocco: moriva il 20 febbraio 1979
Padre del calcio all’italiana, costruì i suoi successi su gruppo e difesa

Caro Nereo, da quel 20 febbraio 1979, ne sono passati trenta. Poco più di una ventina da quando la storia decise che eri diventato il pas-sato e che il passato era passato di moda. Anche i giornali si ade-guarono ai tempi contenendo le tue assidue incursioni. E sì, perché continuavi a parlare e far parlare di te come e più dei vivi: “Rocco diceva”, “Rocco direbbe”, “Quella volta in cui Rocco”, “Quando il Paròn”. La memoria era fresca e quel senso di vuoto doveva es-sere in qualche maniera colmato. D’altronde, gli stessi protagonisti di quegli anni, da Enzo Bearzot e Cesare Maldini a Giovanni Trapat-toni, anche dall’alto dei loro trionfi, non perdevano occasione per ri-cordarti, proclamandosi con orgoglio tuoi figli, discendenti diretti.
Poi, un bel giorno, arrivò Arrigo, che a San Siro strapazzò il Real Ma-drid 5-0. Il suo fu definito il calcio del futuro, tuttavia si basava sulla classe di tre olandesi e di un certo Franco Baresi, che di professione era pur sempre libero. Come Franz Beckenbauer. Di lì a poco, anche ruolo e termine andarono in disuso, diventando entrambi sinonimi di ‘vecchio’, ‘obsoleto’, ‘passato di moda’. Eppure, Nereo, quel ruo-lo l’avevi inventato tu, facendolo conoscere al mondo mentre il mon-do imparava a dargli anche un nome, ‘libero’, prontamente coniato dal tuo amico e strenuo difensore, Gianni Brera. Era parte integran-te di un modulo finalmente tutto nostro, il cosiddetto gioco all’italia-na (catenaccio e contropiede) che, nel corso di decenni, ha prodotto non pochi risultati di prestigio. Diventò il nostro marchio, imitato an-che all’estero e riproposto da quasi tutti gli allenatori almeno sino al-la fine degli anni Ottanta. Ricordi quanti italiani, non solo milanisti, facesti felici portando a casa la prima Coppa dei Campioni? Era la pri-ma volta che un nostro club ne conquistava una, e quella foto in cui tu e capitan Cesare la sollevate scendendo dall’aereo che vi riporta-va da Wembley ha fatto epoca. Ma il tempo passa troppo velocemen-te e si dimentica in fretta. D’un tratto quel marchio diventò un pe-sante fardello di cui vergognarsi, una fastidiosa etichetta da scucirsi alla svelta.
Ma no, Nereo, non è colpa di Arrigo: lui è stato progressista e inno-vatore così come lo sei stato tu, in tempi diversi. È il futuro che, sul finire degli anni Ottanta, arrivò all’improvviso cambiando un po’ tut-to, e tornare indietro, si sa, è impossibile. Quel Real uscì frastorna-to da San Siro, come se avesse trovato di fronte una squadra che, in-vece di giocare il solito calcio, praticava un altro sport: pressing, di-fesa che sale, fuorigioco. E stanne certo, quegli spagnoli erano vec-chi volponi ma, quel giorno, neppure una commission interna convo-cata d’urgenza avrebbe potuto salvarli. Il massacro avvenne sotto gli occhi di tutti: davanti al nuovo che avanza e devasta bisognava cor-rere ai ripari e che lo si facesse in tutta fretta.
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Sai, Nereo, quello a cui stavamo alludendo è stato un periodo di gran-di cambiamenti e dispute, tattiche e ideologiche. Inizialmente si for-marono due fazioni: da una parte i sostenitori del gioco a uomo, dal-l’altra quelli della zona (più o meno pura). Sul campo, però, la diatri-ba si risolse ben presto a favore di questi ultimi. Già ad ‘Usa 1994’ la maggior parte delle squadre si presentò con i due centrali in linea (delle grandi, la Germania fu l’unica a schierarsi ancora con il libero staccato), tendenza che divenne predominante quattro anni dopo in Francia. Il processo di trasformazione poteva dirsi ormai compiuto: almeno nell’accezione più classica del termine, il ruolo di libero (in passato magistralmente interpretato dai Beckenbauer, Krol, Moore, Passarella, Scirea e tanti eccetera) aveva cessato di esistere. Posi-zionare un uomo lì, dietro la difesa, avrebbe solo concesso un gioca-tore in più all’avversario e reso più faticosa una sistematica applica-zione del fuorigioco. Da quel momento in poi, il concetto di difensivi-smo fu messo al bando, quasi fosse un infamante retaggio del pas-sato. Ricordando quanto assai spiacevolmente accadeva nei più auto-revoli salotti televisivi di quel periodo, sembrava dovesse essere tut-to cancellato alla svelta, rimosso dalla memoria. Se non, addirittura, dagli almanacchi. In molti, se solo avessero potuto, insieme al passa-to avrebbero rinnegato i nostri stessi trionfi. A difenderli, tra i po-chissimi ancora a farlo, non c’era più neanche Brera. Se ne andò una sera di dicembre del 1992, rientrando dopo una cena (“Les hommes qui ne boivent pas ne sont pas bons”, ti scrisse quella volta lì).
Caro Nereo, sapessi quante critiche e insulti ha dovuto subire il buon Cesare per il suo atteggiamento difensivista a ‘Francia 1998’. Eppu-re riuscì a bloccare sullo zero a zero i futuri campioni del mondo, per-dendo in casa loro solo ai rigori. Come altro poteva contenerli, con i Torricelli, Pessotto, Di Biagio, Cois e Moriero? Con tutto il rispetto, per piacere. Fece le barricate. Le aveva imparate da te. A 66 anni ha avuto la possibilità di guidare l’Italia in un Mondiale e se l’è gio-cato come meglio sapeva. Senza rimpianti.
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Quanto al difensivismo, Brera – e come dargli torto! – ne dava una spiegazione antropologica. Sosteneva che il gioco all’italiana riprodu-cesse storicamente il nostro temperamento. Per secoli abbiamo dife-so il nostro territorio per cui la difesa (resistenza, opposizione, sop-portazione, sofferenza, attesa) è nella nostra genetica, è congenita, istintiva, quasi ereditaria. È quanto di meglio sappiamo mettere in campo. Le nostre guerre le abbiamo vinte in trincea, quando abbia-mo fatto le barricate.
E tu, Nereo, della lunga tradizione di allenatori ‘all’italiana’ sei stato senza dubbio il più grande. Padre del catenaccio e maestro di rappor-ti umani. Sei diventato l’icona di un calcio diverso, romantico, d’al-tri tempi, andato via per sempre. Dovresti sentirli i tuoi ‘figli’ come parlano di te. Sai, alcuni di quei ragazzi oggi hanno una certa età e fatto carriere importanti anche in panchina, ma non appena gli si chiede del Paròn diventano fiumi in piena. Ricordano quanta impor-tanza dessi al gruppo, allo spogliatoio. Con loro, raccontano, divide-vi tutto: emozioni, gioie, dolori, tavola, tempo libero, anche i quat-trini del premio-partita. Bearzot dice che con te ha imparato “due cose fondamentali. Primo, come si crea un ambiente, un’atmosfera. Secondo, una squadra si regge sui vecchi: il giovane ti dà la gamba, il vecchio la testa”.
Alcuni tuoi detrattori sostengono pure che non fossi molto abile in fatto di tattica. Ma erano altri tempi, molto lontani dal tatticismo esasperato a cui siamo abituati oggi. Le tue partite le preparavi in altro modo: responsabilizzando i giocatori, parlando con loro, deci-dendo insieme la formazione. Prima di ogni partita importante, eri solito interpellare il ‘grande consiglio degli anziani’, la leggendaria commission interna: Maldini, Trapattoni, Rivera, Rosato, Altafini, Schnellinger, Ghezzi, Cudicini, i tuoi uomini di massima fiducia, in campo e fuori. Dicevi che “un giocatore che si è imposto per la sua classe, in Nazionale o in squadre di grido, a 30/31 anni non è finito. Invecchia precocemente solo se si sente abbandonato”. Hai avuto sempre molta considerazione degli anziani, riciclandone tanti dati ormai per finiti. Sapevi quanto nelle grandi competizioni contasse soprattutto l’esperienza. Allora, sai che forse il tuo capolavoro è pro-prio Wembley? Sì, quando sbagliasti la marcatura su Eusebio. Il Benfi-ca vinceva 1-0 e fu la commissione interna a prendere in pugno la si-tuazione: capitan Maldini si consultò con Ghezzi e decise di spostare il Trap sul fuoriclasse portoghese, che non toccò più palla. Finì 2-1 (doppietta di Altafini) e tornaste in Italia con la Coppa. Sai che, a tutt’oggi, Cesare non ha mai rivendicato quel merito? Se potessi sen-tirlo, continua a dire che quel giorno “comunicare con Rocco era im-possibile perché a Wembley le panchine erano lontanissime dal cam-po e poi c'erano due poliziotti giganteschi che impedivano al nostro allenatore di muoversi”.
Quella di Wembley fu l’ultima partita del tuo primo ciclo milanista. Andavi al Torino, al cui presidente avevi dato la parola alcuni mesi prima. Rinunciavi alla barca di soldi che ti offriva Rizzoli e alla tua stessa volontà di restare a Milano. Con Pianelli c’era stata solo una stretta di mano, per te fondamentale: “Xe tardi. Mi son de France-sco Giuseppe e la parola xe una”, rispondesti al cumenda milanese sicuro che avresti accettato. È una frase che rimbomba forte ancora oggi, ogni qual volta c’è un contratto miliardario non rispettato.
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Ti esprimevi quasi esclusivamente nella tua lingua, il triestino, indi-pendentemente da chi avessi di fronte. Preferivi apparire burbero e nascondere quel lato sentimentale che, invece, ti hanno saputo rico-noscere in molti. Intorno a te si è creato un ‘personaggio’ che, erro-neamente, troppo spesso è stato anteposto alla persona. A tal propo-sito, Rivera non ha dubbi: “Rocco è uomo vero, autentico. Anzi, na-sceva proprio come anti-personaggio, e lo era in maniera talmente prorompente e naturale da sembrare il contrario”. Se ne accorse an-che Fellini, che nel ruolo del padre di Titta aveva bisogno di un uomo grezzo ma in fondo sensibile, bonario, simpatico, e ti propose di re-citare in Amarcord. Ci pensasti un attimo, poi “No, grassie, sior Fel-lini”, fu la tua risposta. Il mondo del cinema non era nelle tue corde. Semmai, scherzavi con i tuoi ragazzi per tenere alto il morale, come quando Altafini sbucava fuori tutto nudo dal tuo armadietto e tu, puntualmente, facevi finta di spaventarti: “Bruto mona, te me fa ve-gnir l’infarto!”.
Sai, le tue frasi non si traducono più. Sono state prima legittimate dalla carta stampata e poi entrate di diritto nella letteratura più au-torevole. Fanno parte di una memoria che si conserva e trasmette da spogliatoio a spogliatoio, da allenatore ad allenatore, da giornali-sta a giornalista, di generazione in generazione. Una ricca antologia di frasi, espressioni, aneddoti, citazioni, miti e luoghi, da cui attin-gere non appena ricorrenze storiche e vicende del presente ce ne of-frono l’occasione. Perché, come ripete Rivera (colui di cui tu dice-vi "Giani xe i miei oci"), “il Paròn manca fisicamente a tutti”.
Caro Nereo, ne sono velocemente passati trenta. Intanto, Enzo ha portato a casa una Coppa del Mondo, Cesare tre titoli europei Under 21 e il Trap è l’allenatore italiano che ha vinto più di tutti. Oggi, Gioanìn, ha 70 anni e corre ancora in tuta in mezzo ai ragazzi. In Germania lo adorano, mentre in Italia alcuni dicono che sia un vec-chio rincoglionito. Da un anno è alla guida dell’Eire e, zitto zitto, lo sta portando al Mondiale.
Ah, un’ultima cosa, ma sicuramente lo saprai già: due mesi fa l’As-sassino, il ristorante milanese che tu chiamavi il tuo uficio, ha cam-biato gestione. I vecchi proprietari sono andati in pensione. Cesare è stato fedele cliente fino a pochi giorni prima. Anche di lui dice-vi: “Di Cesare me posso fidar”.

Nereo Rocco con Cesare Maldini