venerdì

Torino periferica, Juventus declassata?

In futuro la Vecchia Signora potrebbe abbandonare l’élite

Abituiamoci ad una Juventus diversa. L’idea di Juventus impressa da oltre sessant’anni nell’immaginario collettivo degli italiani non corrisponde più alla realtà. Sconquassando prima l'idea astratta, sarà più facile abituarsi a deludenti risultati sportivi i quali, in quest’ot-tica, non saranno solo e necessariamente fallimentari.
Per quasi un secolo Torino, città della Fiat e della Juventus, è la ca-pitale calcistica d’Italia. Torino-Milano l’asse portante sul quale viag-giano gli scudetti. Dal Dopoguerra se ne dividono 50 su 62, ciò signi-fica che solo un paio per ogni decennio finiscono altrove: Roma (4), Firenze e Napoli (2), Bologna, Genova, Cagliari e Verona (1).
Noi di Undici di certo non ipotizziamo per la Juventus un futuro ca-tastrofico (anzi, un campionato potrebbe anche vincerlo fra non mol-to, visto che il ciclo dell’Inter non può durare in eterno), però ritenia-mo che sia destinata ad abbandonare l’élite mischiandosi nel novero delle outsiders alle quali Milano concederà i due (magari divente-ranno tre) titoli per decennio. Insomma, immaginiamo una Italia cal-cistica Milanocentrica a scapito di una Torino declassata e ridimen-sionata. A supportare questa tesi una semplice analisi di un conte-sto storico-calcistico irrimediabilmente mutato.
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La Juventus degli Agnelli non esiste più. E non esiste più non solo perché la proprietà ora è nelle mani di eredi meno capaci o cari-smatici ma, soprattutto, perché è venuto meno quel contesto storico-calcistico sensibile al peso politico della Fiat e della famiglia Agnelli.
E poi, sfatiamo un mito: la Juventus storicamente non ha mai eser-citato uno strapotere economico sovrastante o speso cifre folli. An-che per via di una politica che imponeva stile e misura, non si ri-cordano aste miliardarie, soprattutto negli anni Settanta quando la crisi dell’automobile sconsigliava sperperi immorali. I migliori gioca-tori finivano a Torino per prestigio della società, prospettive di car-riera e odore di Nazionale. Inoltre, per decenni, la Juventus si è av-valsa di dirigenti abilissimi (Allodi e Boniperti, forse i migliori mai esistiti) e di una organizzazione feudale (vivai di Atalanta e Cremo-nese su tutti) che le garantiva, pagandoli il giusto, il diritto di pre-lazione sui migliori talenti in circolazione.
Questi equilibri si rompono già sul finire degli anni Ottanta quando costi e ingaggi salgono improvvisamente alle stelle in un clima di aperta concorrenza. Come data spartiacque si suole indicare l’estate del 1986 quando l’atalantino Donadoni, da prassi destinato alla Ju-ventus, finisce invece al Milan del neo presidente Berlusconi che sul piatto offre molto di più. Da allora, per dirla in maniera spicciola, i migliori giocatori vanno al miglior offerente e, nella seconda metà degli anni Novanta, a poter disporre di denaro contante non sono solo le milanesi di Berlusconi e Moratti ma anche il Parma di Tanzi e la Lazio di Cragnotti.
Il declino della Juventus sarebbe arrivato anche prima se, nel 1994, la società bianconera non avesse chiamato a corte Luciano Moggi (telefonate a parte, il miglior direttore sportivo in circolazione). L’Avvocato, che intanto ha passato la mano al fratello Umberto, lo definisce “un male necessario”. E in realtà è così. Moggi, con quat-tro soldi e un occhio al bilancio (costretto di stagione in stagione a cessioni importanti: Baggio, Vialli, Peruzzi, Vieri, Inzaghi, Zidane), per dodici anni riesce comunque a costruire squadre forti e vincenti.
Ma, strana coincidenza, i guai (le intercettazioni telefoniche) comin-ciano proprio nel maggio 2004, alla morte del Dottor Umberto. Im-provvisamente la Juventus non è più intoccabile. Se sgarra, paga. E finisce addirittura in B.
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In questa stagione si è toccato il fondo, non tanto per i pessimi ri-sultati (fosse quello il problema!) quanto perché si sono palesate tut-te le difficoltà di una società allo sbando, con una proprietà assente, distante e poco influente e una dirigenza che, dopo un mercato Lippi-dipendente, non ha saputo far di meglio che riesumare il povero e inutile Bettega. Ma il peggio lo si è visto quando ha cercato di rime-diare in corsa, incassando il rifiuto dei principali allenatori contattati (Hiddink su tutti) e ripiegando mestamente su Zaccheroni. Quanto al-la campagna acquisti invernale, definirla sterile è riduttivo: la squa-dra doveva rinforzarsi, possibilmente a scapito delle dirette avversa-rie, e invece Pandev (l’unico pezzo pregiato del mercato) è finito al-l’Inter mentre a Torino sono arrivati giocatori (Candreva e Paoluc-ci) per i quali non è stata vinta alcuna concorrenza. Prima ancora dei soldi, manca potere di mercato.
Oltretutto, per rifondare la Juventus, servirebbe un notevole inve-stimento economico, molto più consistente degli 80 milioni di euro in tre anni di cui si parla. Dato ormai per certo l’arrivo di Benìtez, si dice che l’allenatore spagnolo da Liverpool potrebbe portarsi un paio di buoni giocatori (si fanno i nomi di Mascherano, Torres e Kuyt). Ma davvero se il Liverpool non fosse stato in crisi, bisognoso di colmare un buco di 300 milioni di euro, la Juventus sarebbe riuscita a soffiar-gli l’allenatore e, ammesso che arrivino, un paio dei suoi migliori ele-menti? Ne dubitiamo. Dubitiamo, cioè, che l’attuale Juventus possa bussare alla porta delle grandi d’Europa (“Scusi, señor Laporta, ci da-rebbe Messi?”) senza ricevere pernacchie. Correggiamoci: non è un dubbio, è una certezza. D’altronde, come può una società costretta per far cassa a privarsi di Buffon sottrarre i Buffon altrui?
La Juventus, però, è tagliata fuori anche da operazioni di mercato che riguardano le seconde scelte. Così, deve sondare le terze o le quarte: i nomi che circolano, quindi, sono quelli di Marchetti, Kjaer, Criscito, Palombo, D’Agostino, Pepe, Pazzini (che non sarebbe affat-to male), Kuranyi. Provenienza? Cagliari, Palermo, Genoa, Sampdo-ria, Udinese, Schalke 04. Ad occhio e croce, una squadra da terzo-quarto posto. Ciò, nella migliore delle previsioni perché, mentre i giornali pubblicano queste notizie, Kuranyi fa sapere di preferire la Dinamo Mosca e i presidenti Zamparini e Preziosi di non essere per nulla disposti a cedere i loro giocatori, se non a peso d’oro. Pratica-mente, per acquistare un paio di Palombi, la Juventus dovrebbe scia-lacquarsi quanto incassato con la cessione di Buffon. Evitiamo altre considerazioni sulle possibilità di mercato juventine e stendiamo un velo pietoso.
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C’è chi è pronto a scommettere che la Vecchia Signora si rialzerà. I tifosi non fanno testo, ci riferiamo piuttosto a chi, peraltro giusta-mente, fa fatica a concepire un’élite calcistica priva della sua so-cietà più blasonata. Ma la Juventus dei successi, la Juventus dei grandi campioni (Sìvori, Zoff, Causio, Platini, Baggio, Zidane, Del Piero) era anche la Juventus della Fiat e degli Agnelli. Il tempo passa e le cose cambiano. Oggi per rimetterla in piedi occorrerebbe il peso politico dell’Avvocato e il portafoglio di Moratti.
Nel continuo work in progress societario, da pochi giorni alla presi-denza (terzo avvicendamento della stagione) si è insediato un Agnel-li, Andrea, 34enne figlio di Umberto, reclamato a gran voce dal po-polo. Come se bastasse un cognome. Tanti auguri sinceri, Andrea.



Ultim’ora Benìtez ha deciso di restare a Liverpool (o di andarsene altrove). Quindi, addio anche ai ventilati nomi di Torres, Maschera-no e Kuyt. La panchina bianconera è stata affidata al sampdoriano Delneri (60enne con un’onesta carriera alle spalle), il quale da Ge-nova vorrebbe portare Ziegler e Palombo. Unica nota positiva, così pare, il ritiro di Buffon dal mercato.
A parole “si sta costruendo una nuova Juve vincente”, nei fatti il ri-dimensionamento è già in atto.