Calcio del futuro: si parla tanto di Paesi africani ma attenti agli Usa
Per strutture, popolazione e potenzialità sono loro quelli da temere
È opinione diffusa che il calcio del futuro avrà per protagonista l’Afri-ca e che non tarderà il giorno (di un futuro non meglio precisato) in cui una squadra africana vincerà la Coppa del Mondo.
Con meno enfasi diremmo che Camerun prima (1982 e 1990) e Ni-geria poi (1994 e 1998) hanno dato un forte impulso alla crescita del-l’intero movimento calcistico continentale, i cui margini di migliora-mento sono tanto ampi quanto, purtroppo, frenati da evidenti ca-renze strutturali, organizzative ed economiche. La stessa designazio-ne di Sudafrica 2010 è da intendersi più come premio e ulteriore in-centivo al progresso (oltre alla promessa di Blatter di portare il Mon-diale in Africa, ricambiando così i voti ricevuti) che un riconoscimen-to alle capacità del Paese di ospitare un evento di tale portata.
Parlando di calcio giocato, dieci-quindici anni fa si dava per plausibi-le una affermazione africana al Mondiale 2006 o 2010. Oggi ai prono-stici si preferisce non legare più una data, però si continua a ripete-re come una filastrocca che “il calcio del futuro parlerà africano”. Al contrario, secondo noi, il calcio africano ha toccato il picco più alto negli anni Novanta, senza poi sapersi né confermare né evolvere. In particolare la Nigeria, fiore all’occhiello di quel decennio (una buona squadra ma non il nonplusultra), in seguito si è persa per strada fal-lendo la qualificazione al Mondiale 2006 e acciuffando per il rotto del-la cuffia quella al 2010. Discontinuo anche il Camerun, che ha man-cato il 2006 e oggi appare meno forte di qualche anno fa. Di questi tempi la migliore africana sembra essere la Costa d’Avorio ma inse-rirla tra le pretendenti al prossimo mondiale è alquanto esagerato. In generale, il continente africano presenta giocatori di altissimo livello (Drogba ed Eto’o su tutti) ma Nazionali non all’altezza dei singoli. Per queste e altre ragioni, in tutta onestà, non ci sentiamo di soste-nere che “il calcio del futuro parlerà africano”, soprattutto se per fu-turo si intende quello più prossimo.
Invece, dovendoci sbilanciare in previsioni, preferiamo asserire che il calcio del futuro potrebbe essere quello statunitense. O meglio, ri-teniamo che gli Stati Uniti abbiano i requisiti per affiancare le attua-li potenze calcistiche mondiali. Ciò non avverrà oggi o domani (do-vrà passare almeno un ventennio), ma se c’è una nazione che può permettersi di sconquassare gerarchie secolari quella nazione sono gli Stati Uniti.
*****
Per competere ai massimi livelli del calcio mondiale occorrono alme-no tre componenti, tutte indispensabili: tradizione (passato, espe-rienza), strutture (scuole calcio, settore giovanile, campi di gioco) e benessere (o, meglio ancora, potere politico-economico medio-alto). A questi tre aspetti ne aggiungiamo un altro, quasi sempre omesso, quello demografico. Sarà un caso che le nazioni calcisticamente più titolate – Brasile (191 milioni di abitanti), Germania (82), Italia (60), Francia (65), Inghilterra e Spagna (50), Argentina (40) – sono anche le più popolose? Se ne deduce che, a parità di condizioni, un maggior numero di abitanti garantisce più talenti e continuità. E gli Stati Uni-ti, che notoriamente si disinteressano al calcio, contano 303 milioni di abitanti.
Veniamo, appunto, alla nota dolente. Quel che manca agli States è una vera e propria cultura calcistica: gli sport nazionali sono altri (ba-sket, baseball, football americano, hockey su ghiaccio), tutti pratica-ti ai massimi livelli, mentre l’attenzione riservata al soccer, come lo chiamano loro, è storicamente scarsa o nulla. Però, se è vero che co-stumi e tradizioni non si comprano al mercato, è anche vero che gli americani hanno una fortissima predisposizione per lo sport in ge-nere, e le loro enormi potenzialità dovrebbero far riflettere: di ba-sket, baseball, football e hockey vantano i migliori campionati, le mi-gliori squadre, i migliori giocatori, le migliori infrastrutture, oltre ad un pubblico ricettivo, un apparato mediatico di prim’ordine ed uno show-business più che collaudato. E il modello americano fa scuola, influenzando gli altri sport più di quanto immaginiamo. Molte stra-nezze di cui l’Europa calcistica ha sorriso per anni (pensiamo ai nomi sulle maglie, ai play-off) sono state poi introdotte nei più blasonati campionati europei.
Gli Stati Uniti danno l’impressione di voler rinunciare al calcio. Tra-dizione a parte, le componenti per competere ai massimi livelli già ci sarebbero, o basterebbe schioccare le dita per far sì che non man-chino.
*****
Adesso è estremamente importante fare alcuni passi indietro e spen-dere qualche parola sulla NASL (North American Soccer League), l’in-tenso, discusso e controverso fenomeno calcistico nordamericano di circa trent’anni fa, prima lanciato come una enorme next big thing e poi imploso nel nulla.
Sino alla fine degli anni Sessanta gli Stati Uniti non possiedono né un campionato professionistico né una federazione calcistica di riferi-mento. Il soccer, sport per ispanici e minoranze da incomprensibili gusti filo-europei, è poco praticato anche a livello amatoriale. Tutta-via, sotto la spinta del Mondiale vinto nel 1966 dall’Inghilterra, e soprattutto quella dell’allora Segretario di Stato americano Henry Kissinger (noto appassionato di calcio), nasce la NASL, prima storica Lega professionistica di Usa e Canada. Gli inizi sono difficili – si tratta di coinvolgere un pubblico che ignora anche le regole di gioco più basilari – ma investimenti ingenti e massicce campagne promo-zionali portano ad una rapida crescita di interesse: nascono nuovi club in quasi tutte le principali città e le affiliazioni aumentano di anno in anno, mentre anche gli spalti cominciano a gremirsi.
La NASL raggiunge il suo periodo d’oro nella seconda metà degli anni Settanta quando, a suon di dollari, arrivano gli ultratrentenni Pelè, Cruijff, Beckenbauer, Best, Gerd Müller, Bobby Moore, Eusebio, Chi-naglia, Carlos Alberto, Krol, Neeskens, Bettega e moltissimi altri big. Praticamente il gotha del calcio di qualche anno prima.
Nasce anche il mito dei New York Cosmos, la squadra stellare della Warner Communications (colosso discografico, cinematografico e televisivo), che con Pelè, Beckenbauer e Chinaglia vince cinque titoli NASL, tra vorticosi jet-set di calcio, cinema e musica. Il fenomeno Cosmos si espande a dismisura: la squadra riesce addirittura ad accasarsi al Giants Stadium, tempio del football americano, e il suo marchio è esportato nel mondo (ancora oggi, nonostante il club non esista più, si continuano a vendere magliette vintage con il celebre logo dei Cosmos).
Sono anche anni di inconcepibili ‘americanate’: campionati con play-off (importati dal basket), tabellone con il countdown dei novanta mi-nuti, partite indoor e su campi sintetici (e spettatori che applaudono una banalissima rimessa dal fondo scambiandola per una grande gio-cata!). Eppure in quegli anni i riflettori della purista, conservatrice e calciofila Europa sono puntali lì.
Dopo il boom, il declino che, nel giro di pochissimi anni, porta nel 1984 allo scioglimento della NASL. Sulle cause si è discusso a lungo. Tra le principali, investimenti spropositati, costi di gestione eleva-tissimi, ma anche molta inesperienza e ingenuità. Il colpo di grazia sembra sia arrivato dalla mancata assegnazione del Mondiale 1986, per il quale gli Stati Uniti avevano presentato la candidatura sicuri che l’organizzazione del torneo avrebbe lanciato definitivamente il soccer nel Paese. A questi motivi, tutti determinanti, ne aggiungia-mo un altro forse addirittura onnicomprensivo: la dipendenza totale da star a fine carriera. Imbottita com’era di campioni oltre il viale del tramonto, e reggendosi unicamente su di essi, la NASL non po-teva che avere vita breve.
Ad ogni modo, fallimento a parte (se di vero e proprio fallimento si può parlare), a noi interessa sottolineare come gli Stati Uniti, quasi per gioco, siano stati in grado di mettere in piedi un organismo spor-tivo, strutturale e mediatico di tali proporzioni.
*****
Oggi il nuovo campionato americano, la Major League Soccer (MLS), vale poco o nulla. La scarsa considerazione è dettata dal fatto che non si regge sui pochi nomi altisonanti che di tanto in tanto arrivano per svernare (Zenga, Donadoni, Stoichkov, Matthaeus, Djorkaeff, Beckham, sono le uniche figure di spicco nell’arco di un decennio e mezzo) bensì su una maggioranza indigena che ha modo e tempo per crescere. E il calcio statunitense sta progredendo secondo naturali processi fisiologici. Non importa se lentamente.
Intanto, il prossimo sarà il sesto Mondiale consecutivo a cui gli Stati Uniti prendono parte. Certo, non ci vuole molto a qualificarsi dalla zona Concacaf (quella centro-nord americana), però un tempo chi passava sistematicamente era il Messico e poi, a turno, le ispaniche Costarica, Haiti, Honduras ed El Salvador, le quali si mangiavano la sprovveduta Nazionale statunitense in un sol boccone. Da vent’anni a questa parte, invece, a passare sistematicamente sono proprio gli Stati Uniti, che hanno di fatto strappato la leadership continentale al Messico.
Penultima considerazione: alcuni studi di settore sostengono che il calcio vada avanti “per imitazione”. Con ciò si intende dire che suc-cessi o risultati importanti producono un forte effetto emulativo, sia per quanto riguarda moduli di gioco e ‘mode’ in senso lato (l’Olanda di Cruijff è forse l’esempio più lampante) sia, e soprattutto, per quel che riguarda l’influenza sulle più giovani generazioni. E se la Nazionale Usa riuscisse ad agguantare un buon piazzamento? Non subito, magari al Mondiale 2014 o 2018. Magari anche grazie a favorevoli congiunture di eventi (squadra discreta, buon calendario, défaillance di qualche big, botta di fortuna), perché no? È già successo: pensiamo a quel bislacco Mondiale 2002 in cui la Turchia arrivò terza, la Corea del Sud quarta, e proprio gli Stati Uniti raggiunsero fortunosamente i Quarti di Finale. In questo caso, se è vero come è vero che il calcio va avanti anche “per imitazione”, un quarto posto in una Coppa del Mondo non può lasciare indifferenti tutti i circa 303 milioni di statunitensi. E se a ciò aggiungiamo che gli Stati Uniti hanno presentato la candidatura per ospitare il Mondiale 2018 o 2022…
Dulcis in fundo, il dato più 'inquietante': alcune statistiche riportano che i ragazzi statunitensi tra gli 8 e i 14 anni che praticano calcio oggigiorno non siano meno di quelli che si dedicano a basket, ba-seball e football americano.
Di qui ad affermare che il calcio del futuro sarà a stelle e strisce ce ne passa. Se però dobbiamo intestardirci con pronostici, ci sentiamo di sostenere che in prospettiva futura le potenzialità degli Stati Uniti siano ben superiori a quelle africane.
Chissà, fra pochi mesi il Mondiale lo vince la Costa d’Avorio e l’in-tero continente africano prende a pernacchie questo articolo. E ci fa-rebbe pure piacere, non nutrendo una forte simpatia per gli Stati Uni-ti, ma è un’ipotesi assai remota.
Per strutture, popolazione e potenzialità sono loro quelli da temere
È opinione diffusa che il calcio del futuro avrà per protagonista l’Afri-ca e che non tarderà il giorno (di un futuro non meglio precisato) in cui una squadra africana vincerà la Coppa del Mondo.
Con meno enfasi diremmo che Camerun prima (1982 e 1990) e Ni-geria poi (1994 e 1998) hanno dato un forte impulso alla crescita del-l’intero movimento calcistico continentale, i cui margini di migliora-mento sono tanto ampi quanto, purtroppo, frenati da evidenti ca-renze strutturali, organizzative ed economiche. La stessa designazio-ne di Sudafrica 2010 è da intendersi più come premio e ulteriore in-centivo al progresso (oltre alla promessa di Blatter di portare il Mon-diale in Africa, ricambiando così i voti ricevuti) che un riconoscimen-to alle capacità del Paese di ospitare un evento di tale portata.
Parlando di calcio giocato, dieci-quindici anni fa si dava per plausibi-le una affermazione africana al Mondiale 2006 o 2010. Oggi ai prono-stici si preferisce non legare più una data, però si continua a ripete-re come una filastrocca che “il calcio del futuro parlerà africano”. Al contrario, secondo noi, il calcio africano ha toccato il picco più alto negli anni Novanta, senza poi sapersi né confermare né evolvere. In particolare la Nigeria, fiore all’occhiello di quel decennio (una buona squadra ma non il nonplusultra), in seguito si è persa per strada fal-lendo la qualificazione al Mondiale 2006 e acciuffando per il rotto del-la cuffia quella al 2010. Discontinuo anche il Camerun, che ha man-cato il 2006 e oggi appare meno forte di qualche anno fa. Di questi tempi la migliore africana sembra essere la Costa d’Avorio ma inse-rirla tra le pretendenti al prossimo mondiale è alquanto esagerato. In generale, il continente africano presenta giocatori di altissimo livello (Drogba ed Eto’o su tutti) ma Nazionali non all’altezza dei singoli. Per queste e altre ragioni, in tutta onestà, non ci sentiamo di soste-nere che “il calcio del futuro parlerà africano”, soprattutto se per fu-turo si intende quello più prossimo.
Invece, dovendoci sbilanciare in previsioni, preferiamo asserire che il calcio del futuro potrebbe essere quello statunitense. O meglio, ri-teniamo che gli Stati Uniti abbiano i requisiti per affiancare le attua-li potenze calcistiche mondiali. Ciò non avverrà oggi o domani (do-vrà passare almeno un ventennio), ma se c’è una nazione che può permettersi di sconquassare gerarchie secolari quella nazione sono gli Stati Uniti.
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Per competere ai massimi livelli del calcio mondiale occorrono alme-no tre componenti, tutte indispensabili: tradizione (passato, espe-rienza), strutture (scuole calcio, settore giovanile, campi di gioco) e benessere (o, meglio ancora, potere politico-economico medio-alto). A questi tre aspetti ne aggiungiamo un altro, quasi sempre omesso, quello demografico. Sarà un caso che le nazioni calcisticamente più titolate – Brasile (191 milioni di abitanti), Germania (82), Italia (60), Francia (65), Inghilterra e Spagna (50), Argentina (40) – sono anche le più popolose? Se ne deduce che, a parità di condizioni, un maggior numero di abitanti garantisce più talenti e continuità. E gli Stati Uni-ti, che notoriamente si disinteressano al calcio, contano 303 milioni di abitanti.
Veniamo, appunto, alla nota dolente. Quel che manca agli States è una vera e propria cultura calcistica: gli sport nazionali sono altri (ba-sket, baseball, football americano, hockey su ghiaccio), tutti pratica-ti ai massimi livelli, mentre l’attenzione riservata al soccer, come lo chiamano loro, è storicamente scarsa o nulla. Però, se è vero che co-stumi e tradizioni non si comprano al mercato, è anche vero che gli americani hanno una fortissima predisposizione per lo sport in ge-nere, e le loro enormi potenzialità dovrebbero far riflettere: di ba-sket, baseball, football e hockey vantano i migliori campionati, le mi-gliori squadre, i migliori giocatori, le migliori infrastrutture, oltre ad un pubblico ricettivo, un apparato mediatico di prim’ordine ed uno show-business più che collaudato. E il modello americano fa scuola, influenzando gli altri sport più di quanto immaginiamo. Molte stra-nezze di cui l’Europa calcistica ha sorriso per anni (pensiamo ai nomi sulle maglie, ai play-off) sono state poi introdotte nei più blasonati campionati europei.
Gli Stati Uniti danno l’impressione di voler rinunciare al calcio. Tra-dizione a parte, le componenti per competere ai massimi livelli già ci sarebbero, o basterebbe schioccare le dita per far sì che non man-chino.
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Adesso è estremamente importante fare alcuni passi indietro e spen-dere qualche parola sulla NASL (North American Soccer League), l’in-tenso, discusso e controverso fenomeno calcistico nordamericano di circa trent’anni fa, prima lanciato come una enorme next big thing e poi imploso nel nulla.
Sino alla fine degli anni Sessanta gli Stati Uniti non possiedono né un campionato professionistico né una federazione calcistica di riferi-mento. Il soccer, sport per ispanici e minoranze da incomprensibili gusti filo-europei, è poco praticato anche a livello amatoriale. Tutta-via, sotto la spinta del Mondiale vinto nel 1966 dall’Inghilterra, e soprattutto quella dell’allora Segretario di Stato americano Henry Kissinger (noto appassionato di calcio), nasce la NASL, prima storica Lega professionistica di Usa e Canada. Gli inizi sono difficili – si tratta di coinvolgere un pubblico che ignora anche le regole di gioco più basilari – ma investimenti ingenti e massicce campagne promo-zionali portano ad una rapida crescita di interesse: nascono nuovi club in quasi tutte le principali città e le affiliazioni aumentano di anno in anno, mentre anche gli spalti cominciano a gremirsi.
La NASL raggiunge il suo periodo d’oro nella seconda metà degli anni Settanta quando, a suon di dollari, arrivano gli ultratrentenni Pelè, Cruijff, Beckenbauer, Best, Gerd Müller, Bobby Moore, Eusebio, Chi-naglia, Carlos Alberto, Krol, Neeskens, Bettega e moltissimi altri big. Praticamente il gotha del calcio di qualche anno prima.
Nasce anche il mito dei New York Cosmos, la squadra stellare della Warner Communications (colosso discografico, cinematografico e televisivo), che con Pelè, Beckenbauer e Chinaglia vince cinque titoli NASL, tra vorticosi jet-set di calcio, cinema e musica. Il fenomeno Cosmos si espande a dismisura: la squadra riesce addirittura ad accasarsi al Giants Stadium, tempio del football americano, e il suo marchio è esportato nel mondo (ancora oggi, nonostante il club non esista più, si continuano a vendere magliette vintage con il celebre logo dei Cosmos).
Sono anche anni di inconcepibili ‘americanate’: campionati con play-off (importati dal basket), tabellone con il countdown dei novanta mi-nuti, partite indoor e su campi sintetici (e spettatori che applaudono una banalissima rimessa dal fondo scambiandola per una grande gio-cata!). Eppure in quegli anni i riflettori della purista, conservatrice e calciofila Europa sono puntali lì.
Dopo il boom, il declino che, nel giro di pochissimi anni, porta nel 1984 allo scioglimento della NASL. Sulle cause si è discusso a lungo. Tra le principali, investimenti spropositati, costi di gestione eleva-tissimi, ma anche molta inesperienza e ingenuità. Il colpo di grazia sembra sia arrivato dalla mancata assegnazione del Mondiale 1986, per il quale gli Stati Uniti avevano presentato la candidatura sicuri che l’organizzazione del torneo avrebbe lanciato definitivamente il soccer nel Paese. A questi motivi, tutti determinanti, ne aggiungia-mo un altro forse addirittura onnicomprensivo: la dipendenza totale da star a fine carriera. Imbottita com’era di campioni oltre il viale del tramonto, e reggendosi unicamente su di essi, la NASL non po-teva che avere vita breve.
Ad ogni modo, fallimento a parte (se di vero e proprio fallimento si può parlare), a noi interessa sottolineare come gli Stati Uniti, quasi per gioco, siano stati in grado di mettere in piedi un organismo spor-tivo, strutturale e mediatico di tali proporzioni.
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Oggi il nuovo campionato americano, la Major League Soccer (MLS), vale poco o nulla. La scarsa considerazione è dettata dal fatto che non si regge sui pochi nomi altisonanti che di tanto in tanto arrivano per svernare (Zenga, Donadoni, Stoichkov, Matthaeus, Djorkaeff, Beckham, sono le uniche figure di spicco nell’arco di un decennio e mezzo) bensì su una maggioranza indigena che ha modo e tempo per crescere. E il calcio statunitense sta progredendo secondo naturali processi fisiologici. Non importa se lentamente.
Intanto, il prossimo sarà il sesto Mondiale consecutivo a cui gli Stati Uniti prendono parte. Certo, non ci vuole molto a qualificarsi dalla zona Concacaf (quella centro-nord americana), però un tempo chi passava sistematicamente era il Messico e poi, a turno, le ispaniche Costarica, Haiti, Honduras ed El Salvador, le quali si mangiavano la sprovveduta Nazionale statunitense in un sol boccone. Da vent’anni a questa parte, invece, a passare sistematicamente sono proprio gli Stati Uniti, che hanno di fatto strappato la leadership continentale al Messico.
Penultima considerazione: alcuni studi di settore sostengono che il calcio vada avanti “per imitazione”. Con ciò si intende dire che suc-cessi o risultati importanti producono un forte effetto emulativo, sia per quanto riguarda moduli di gioco e ‘mode’ in senso lato (l’Olanda di Cruijff è forse l’esempio più lampante) sia, e soprattutto, per quel che riguarda l’influenza sulle più giovani generazioni. E se la Nazionale Usa riuscisse ad agguantare un buon piazzamento? Non subito, magari al Mondiale 2014 o 2018. Magari anche grazie a favorevoli congiunture di eventi (squadra discreta, buon calendario, défaillance di qualche big, botta di fortuna), perché no? È già successo: pensiamo a quel bislacco Mondiale 2002 in cui la Turchia arrivò terza, la Corea del Sud quarta, e proprio gli Stati Uniti raggiunsero fortunosamente i Quarti di Finale. In questo caso, se è vero come è vero che il calcio va avanti anche “per imitazione”, un quarto posto in una Coppa del Mondo non può lasciare indifferenti tutti i circa 303 milioni di statunitensi. E se a ciò aggiungiamo che gli Stati Uniti hanno presentato la candidatura per ospitare il Mondiale 2018 o 2022…
Dulcis in fundo, il dato più 'inquietante': alcune statistiche riportano che i ragazzi statunitensi tra gli 8 e i 14 anni che praticano calcio oggigiorno non siano meno di quelli che si dedicano a basket, ba-seball e football americano.
Di qui ad affermare che il calcio del futuro sarà a stelle e strisce ce ne passa. Se però dobbiamo intestardirci con pronostici, ci sentiamo di sostenere che in prospettiva futura le potenzialità degli Stati Uniti siano ben superiori a quelle africane.
Chissà, fra pochi mesi il Mondiale lo vince la Costa d’Avorio e l’in-tero continente africano prende a pernacchie questo articolo. E ci fa-rebbe pure piacere, non nutrendo una forte simpatia per gli Stati Uni-ti, ma è un’ipotesi assai remota.

Cosmos (primo piano di Pelè e Chinaglia) - Foto presa dal sito Storie di Calcio