venerdì

Lo scudetto dell’isola

Quarant’anni fa l’impresa del Cagliari di Riva

I grandi club quasi perdono il conto dei campionati vinti. Le società sono abituate a vincerli e i loro tifosi a festeggiarli. Accade addirittu-ra che di una squadra scudettata si senta dire: “Però quella forma-zione era meno simpatica delle altre”. Alcuni titoli finiscono nel di-menticatoio, soffocati da altri o magari da stagioni più esaltanti e maggiormente sentite. Juventus, Inter e Milan riescono a vincerli an-che al termine di campionati tribolati o non particolarmente brillanti. Ci riescono meccanicamente, quasi per inerzia. Ricordiamo scudetti arrivati dopo contestazioni, con allenatori in partenza o spogliatoi spaccati all’interno. Alle altre società ciò non è concesso. Le altre, per cucirselo al petto, devono bramare per venti, trent’anni, anche una vita. Devono sudarselo, triplicare gli sforzi. E se arriva, non ac-cade solo perché si ha una squadra competitiva. Occorrono uomini giusti, allenatore giusto, ambiente giusto e momento storico favore-vole. L’ex presidente viola, Nello Baglini, sosteneva fosse indispen-sabile anche l’appoggio della stampa nazionale (“Posso dire di aver cominciato a costruire la Fiorentina da scudetto con i giornalisti di Milano”) e una buona dose di fortuna (“Il pallone può picchiare un palo e tornare in campo oppure rimbalzare e finire in porta”). In-somma, è necessario quello stato di grazia – imprevedibile, casuale, irripetibile – per cui diventa anche possibile rovesciare gerarchie e pronostici.
Quando lo scudetto si scosta dall’asse Torino-Milano è già un evento in sé. Lo sono persino quelli conquistati nella capitale. Pensiamo al primo storico scudetto, nel 1974, della Lazio di Maestrelli e Chinaglia e a quanto, ancora oggi, si continui a scrivere e a raccontare, come se davvero fosse una favola, quella dell’allenatore gentiluomo e della sua banda di scapestrati. Non meno osannato il campionato vinto nel 1983 dalla Roma di Viola, Liedholm e Falcao, dopo un interminabile testa a testa con la Juventus e un’attesa durata quarant’anni (e la stessa “Grazie Roma”, scritta da Venditti per l’occasione, testimo-nia l'eccezionalità di quell’evento). Quindi, se anche nella capitale lo scudetto viene accolto come cosa rara e preziosa, si può facilmente comprendere quale valore storico ne accompagni uno che prende vie ancor meno istituzionali. In quei casi a viverli non sono solo i tifosi o chi segue regolarmente la squadra ma un’intera città: assumono un significato extracalcistico, diventano inestimabile patrimonio cittadi-no. Ecco perché la gente di quei campionati ricorda ogni minimo par-ticolare, ogni fotogramma, momento, data, frase, aneddoto. Come un romanzo prima vissuto e poi raccontato, letto, riletto, tramanda-to e anche un po' enfatizzato.
*****
Lo scudetto del Cagliari 1969-70, lo scudetto dell’isola, è uno di quelli. È probabilmente il miglior esempio di un successo che trava-lica l’aspetto meramente calcistico e va ad inserirsi in un più ampio tessuto socioculturale. “Lo scudetto del Cagliari – scrive Brera – rap-presentò il vero ingresso della Sardegna in Italia. Fu l’evento che sancì il definitivo inserimento dell’isola nella storia del costume italiano. La Sardegna aveva bisogno di una grande affermazione e l’ha ottenuta con il calcio, battendo gli squadroni di Milano e Torino, tradizionalmente le capitali del football italiano”.


Gigi Riva e la Sardegna
Principale artefice di quell’impresa è il lombardo Gigi Riva. Arriva a Cagliari a 18 anni, pensando di farsi le ossa in provincia per poi tra-sferirsi in un club più prestigioso, ma con la Sardegna è amore a pri-ma vista e decide di non lasciarla più. In pochi anni diventa il miglior attaccante italiano e tra i più grandi di tutti i tempi (ancora oggi de-tiene il record di reti in Nazionale: 35, in 42 presenze). A nulla serve la corte, sempre più insistente, delle ricche e blasonate società del Nord: pur di non muoversi dall’isola rifiuta anche ingaggi triplicati. Il suo è un atto di fede che il popolo sardo ricambia ampiamente e che anche a distanza di quarant’anni, non dimentica. Prima ancora di un idolo sportivo, diventa simbolo di una regione e, più in generale, em-blema del calciatore-bandiera. Ancora oggi rappresenta la bandiera senza prezzo, che non si vende e non si compra neanche con tutto l’oro del mondo. “In quegli anni – ricorda Arrica, dirigente di quel Cagliari – la Juventus arrivò ad offrire ben sette giocatori (tra i quali anche i giovani e promettenti Gentile e Bettega) più un miliardo di lire del tempo. Dissi di no, ovviamente”.
Accanto a Riva (anzi, a Giggirrivva, come è ormai conosciuto ovun-que) anno dopo anno prende forma una squadra sempre più compe-titiva. Grazie anche ai contributi della Regione, di cui il presidente del Cagliari, Efisio Corrias, ne è a capo, arrivano ottimi elementi: i nazionali Albertosi e Domenghini (quest’ultimo dalla Grande Inter di Herrera), il brasiliano Nenè, il mediano e poi libero Cera, il centro-campista Greatti, il centravanti Gori, oltre ad importanti gregari quali Niccolai, Martiradonna, Tomasini, Zignoli e Brugnera. In sinte-si, due fuoriclasse (Riva e Albertosi) in una squadra operaia e una società che non ha mai vinto nulla: troppo poco per programmare il tricolore.


Scopigno, l’allenatore filosofo
Sullo sfondo, ma tutt’altro che defilata, la carismatica e disincantata figura dell’allenatore, Manlio Scopigno, il quale, per intelligenza, cul-tura, vena ironica, anticonformismo ed arte di sdrammatizzare an-che nei momenti più delicati, è detto il Filosofo. Sin dal suo arrivo a Cagliari, c’è un aneddoto che aiuta a chiarire personalità, ironia e rapporto con i giocatori. Lo racconta Cera: “Scopigno era arrivato da poco. Eravamo in ritiro in albergo. In sette o otto, e in barba alle regole, ci eravamo dati appuntamento in una camera per giocare a poker. Fumavamo tutti e giocavamo a carte sui letti. C’era anche qualche bottiglia che non ci doveva essere. Ad un certo punto, si apre la porta: è Scopigno. «Oddio – pensai – adesso ci ammazza». Tutti noi, preoccupati, aspettavamo la bufera. Scopigno entrò, nel fumo e nel silenzio, prese una sedia, si sedette vicino e, tirando fuo-ri un pacchetto di sigarette, disse: «Do fastidio se fumo?». Il giorno dopo vincemmo per 3-0”.
Ora, per comprendere a pieno il personaggio Scopigno, è necessario soffermarci sul periodo in questione e inserire l’allenatore sardo in un contesto più ampio.
La sua particolare personalità va ad allinearsi a quelle altrettanto eccentriche di molti suoi colleghi del tempo, contribuendo insieme a loro a dare sale e spessore ad una categoria che con gli anni acquista sempre più rilevanza, professionale e mediatica. Già dagli anni Ses-santa la figura dell’allenatore è tutt’altro che marginale e spesso so-vrasta quelle degli stessi giocatori. Gran merito di ciò lo si deve so-prattutto a personaggi quali Helenio Herrera e Nereo Rocco, caratte-rialmente molto diversi ma entrambi mattatori dal carisma impa-reggiabile. Grazie a Herrera (il quale, sfregando compiaciuto pollice con indice, non smette di sottolineare i vantaggi economici che ne derivano) aumentano in scala anche gli ingaggi. Lo stesso HH (sigla che non indica solo le sue iniziali ma che sta anche per Habla-Habla, ossia Parla-Parla) apre la strada alla tipica macchietta ispano-suda-mericana tanto in voga sul finire degli anni Sessanta, che trova nel Mago (chiacchierone, sbruffone, taccagno) il massimo esponente e validi epigoni in altri allenatori decisamente sopra le righe come il santone Juan Carlos Lorenzo, il profeta del “movimiento” Heriberto Herrera (detto HH2) e il vulcanico Luis Carniglia, il quale prima di rispondere a domande scomode per poi ribattere comunque senza peli sulla lingua, chiede sempre ai giornalisti se preferiscono riceve-re una risposta “para amigos o para la prensa”. La seria A italiana, quindi, può garantire un nutrito lotto di allenatori primi-attori, una categoria in continua ascesa che guadagna sempre maggiori con-sensi, considerazione e spazi, soprattutto mediatici. Sono costante-mente cercati da stampa e televisione per dichiarazioni, commenti e pronostici, sicuri del fatto che ogni risposta e intervento non sarà banale. Sanno riempire i giornali come e quando vogliono. Ed è sufficiente che Herrera in settimana affigga negli spogliatoi uno dei suoi celebri cartelli (recanti scritte tipo “Chi non dà tutto non dà niente”, “Classe + preparazione + intelligenza = scudetto”, “Chi gio-ca per sé, gioca per l’avversario”), o che lo scaramantico Lorenzo bruci le magliette dopo una sconfitta, perché i cronisti abbiano quotidianamente carne al fuoco. Lo spaccone Herrera, il finto burbe-ro Rocco, l’ex coreano tartassato Fabbri, l’incantatore Lorenzo, l’ar-gentino-napoletano Petisso Pesaola, i folcloristici sudamericani HH2 e Carniglia, l’altrettanto folcloristico meridionale Oronzo Pugliese, sciorinano tutti, in un’informe babele di lingue e contenuti, repertori che rivelano a seconda del caso scaltrezza e genuinità, fine umori-smo e autentica comicità.
Ed è in questo specifico contesto che Scopigno si introduce magnifi-camente. Lo fa, come a lui è più congeniale, dissacrando con battute fulminanti i luoghi comuni del calcio: “Vuole sapere quale squadra manderò in campo domenica? Ma che ne so…, i primi undici che arri-vano allo stadio”. E se Rocco, quando gli vengono chieste con insi-stenza spiegazioni sulla formazione, è solito attribuire ogni scelta a sua moglie (“Xe una decision de la siora Maria”), Scopigno, ad un giornalista che dall’inizio della stagione gli chiede sistematicamente come mai Brugnera vada sempre in panchina, una volta, estenuato, risponde: “Vuole proprio saperlo? Perché Brugnera ha il culo stretto, e così in panchina stiamo tutti più comodi”.


L’impresa
Grazie ad un incontenibile Riva, il Cagliari vola subito in testa alla classifica, posizione che conserva mantenendo sempre un vantaggio di due-tre punti sulle inseguitrici. Bastano poche giornate perché risulti chiaro quale sia la squadra da battere. Forti, freschi e affama-ti, dopo il secondo posto dell’anno prima, i sardi hanno anche acqui-sito l’indispensabile maturità per puntare al titolo. Se ne accorgono anche le grandi, che capiscono quale grave errore sia stato sottova-lutare gli isolani e concedere, ad una squadra che ha già il miglior attaccante in circolazione, Riva, giocatori del calibro di Albertosi, Nenè e Domenghini. Ma ormai è tardi.
La Sardegna, abituata a guardare ai miti calcistici del continente, si rende improvvisamente conto che il grande calcio ce l’ha in casa. Il Cagliari è primo in classifica e sta mettendo in riga i grandi club del Nord. Scoppia la passione per una squadra che è, insieme, bandiera e orgoglio patriottico, senso di appartenenza e rivalsa sociale. In tutt’Italia vengono inaugurati 'Cagliari Club' da emigrati sardi, sem-pre presenti e numerosi in ogni trasferta continentale. “Quando an-davamo a giocare a Milano o Torino – ricorda Riva – ci chiamavano pastori e banditi, ma eravamo solo la gioia di tanti minatori, operai e camerieri”.
Brera stravede per Riva, combattente aitante, generoso e corag-gioso, praticamente l’antitesi dell’abatino (termine con cui è solito definire giocatori, come Rivera, dotati di molta classe e scarsa po-tenza fisica) che poco digerisce, e non perde occasione per decan-tare le gesta di “Rombo di tuono” – il soprannome che conierà per lui – e del suo Cagliari. Addirittura, il superlatitante Graziano Mesina gli manda una cartolina per ringraziarlo della simpatia con cui segue le vicende della compagine sarda.
Scopigno imposta la squadra secondo il tradizionale modulo all’ita-liana: tre marcatori fissi (Niccolai, Martiradonna e Zignoli) e un libe-ro dietro (Tomasini). Alla 14a giornata, però, Tomasini si infortuna gravemente e, da quel momento in poi, il suo ruolo viene ricoperto dal mediano Cera, con il conseguente inserimento di Brugnera a centrocampo. Ma, nonostante quest’intralcio, il Cagliari prosegue la sua marcia verso il titolo. Albertosi dimostra di essere uno dei più forti portieri al mondo (in quella stagione saranno solo undici le reti al passivo, record ancora imbattuto) e Giggirrivva segna quasi ogni domenica (28 presenze e 21 gol, al termine del campionato), ma è tutta la squadra a girare. Se ne accorge anche Valcareggi, che con-voca in Nazionale ben sei cagliaritani: gli inamovibili Albertosi, Do-menghini e Riva, più Niccolai, Cera (che, nelle vesti di libero, soffia il posto allo juventino Salvadore) e Gori. A detta di molti, meritereb-bero la convocazione anche Greatti e Martiradonna, tuttavia, se l’esclusione del primo è comprensibilmente motivata dalla presenza, in quel ruolo, di mostri sacri quali Rivera, Mazzola e De Sisti, per quanto riguarda il secondo, è il filosofo Scopigno a fornire la sua strampalata spiegazione: “Se avesse un altro cognome, sarebbe già in Nazionale”.
Il Cagliari primo in classifica e ricco di nazionali porta la Sardegna agli onori della cronaca. Da Roma e Milano partono continuamente troupe della Rai alla scoperta di una nuova fetta di Italia ma, in realtà, alla ricerca di quel mondo antico, di quell’immaginario collet-tivo che da secoli rappresenta quella terra. Celebre un servizio che consegna alla storia l’immagine di un pastore della Barbagia che, con un occhio al gregge, è intento ad ascoltare ad una radiolina “Tutto il calcio minuto per minuto”. Ma la Sardegna non corrisponde più (o solamente) all’entroterra deleddiano e ottocentesco di pecore, muli, pastori e vedove a lutto. Un sondaggio rivela che la media di donne che assistono alle partite del Cagliari è del 29% mentre, nel resto d’Italia, negli stadi si registra una presenza femminile pari all’11%. Merito di Giggirrivva, ma anche di tempi che cambiano e dell’at-mosfera che si respira in una città il cui boom economico coincide con il suo periodo di massimo splendore calcistico.
Ma, prima del tricolore, c’è ancora un ultimo ostacolo da superare: la Juventus, sempre lei, seconda a due punti, che attende al varco Riva e compagni. Lo scontro diretto va in scena verso la fine del campionato, a Torino. Si teme il peso politico dei bianconeri. Mezza Sardegna si prepara a vivere quella domenica con il cuore in gola. Davanti a circa 70 mila spettatori (tra cui tantissimi sardi), arbitra Concetto Lo Bello, uomo solitamente vicino al Palazzo ma, in quei giorni, parecchio indispettito per non essere stato designato arbitro italiano ai Mondiali in Messico. Scopigno, che sconta una squalifica di ben cinque mesi per aver mandato platealmente a quel paese un guardalinee, va a sedersi in tribuna. Dopo mezz’ora di gioco, la Juventus passa in vantaggio grazie ad un’autorete di Niccolai (“Uh, mai visto un gol così bello!”, dice il Filosofo, accanto ad un serioso e sbalordito Boniperti). Il Cagliari reagisce e, allo scadere del primo tempo, trova il pareggio con Riva, che supera tre avversari e poi anche il portiere juventino, Anzolin. Si va al riposo con il risultato di 1-1. Ma ai bianconeri non basta e, nella ripresa, cercano di chiudere la partita. Al 66°, Lo Bello concede alla Juventus un rigore dubbio ed espelle, per proteste, il difensore sardo Mancin. Sul dischetto va Haller. Albertosi para. Ma, per l’arbitro, il tiro va ripetuto perché il portiere si è mosso prima. Al secondo tentativo, la Juventus va a segno. Mancano poco più di venti minuti e il Cagliari è in inferiorità numerica. Ancora una volta, lo scudetto sembra prendere inesorabil-mente la via di Torino. Il sogno di un’isola, di migliaia di tifosi sardi presenti al Comunale e di centinaia di migliaia incollati da casa alle radioline, sembra infranto in una manciata di secondi. Albertosi ha una crisi di nervi e piange appoggiato al palo. Riva, questa volta, capisce che lottare come un gladiatore non basta: “Gli ho urlato di tutto - ricorda - ma Lo Bello faceva finta di non sentire. Gli ho anche chiesto cosa avrei dovuto dirgli per essere sbattuto fuori: «Pensi a giocare, c’è ancora tempo», si è limitato a rispondere”. Infatti, po-chi minuti dopo, Giggirrivva entra in area, Salvadore lo blocca irre-golarmente e l’arbitro fischia il calcio di rigore. Alla radio, sono se-condi interminabili. La voce è quella di Enrico Ameri: “Rincorsa di Riva… tiro… parata di Anzolin [gelo] …ma il pallone entra in rete [boato]!!!”. Col senno di poi, si ritiene che il permaloso arbitro sira-cusano, con quella direzione di gara, abbia voluto far venire i capelli bianchi ai potenti della Federazione. In quel momento, però, si pen-sa solo a giocare gli ultimi minuti: ne mancano pochissimi e la Juventus si riversa in attacco. Leggenda vuole che in quei serrati, tesi e agitati attimi finali, Cera, come da prassi, abbia chiesto il tempo: “Quanto manca?”. “A che cosa?”, avrebbe risposto, imper-turbabile, Scopigno. Riportiamo questo aneddoto, ma non senza il beneficio del dubbio: l’allenatore quel giorno è in tribuna, non in panchina. Il dialogo, quindi, risulta piuttosto improbabile. Facile che abbia avuto luogo in qualche altra occasione, oppure che rientri nella mitologia di quella partita. Mitologia o non mitologia, il Cagliari esce dal Comunale imbattuto e può così avviarsi a vincere il suo primo storico tricolore.
Non sembra vero: lo scudetto in Sardegna. “Sì – risponde Scopigno quando gli si fa notare il valore dell’impresa –, lo so che vincere un campionato a Cagliari equivale a vincerne cinque a Milano o Torino. Me lo ha detto Domenghini, che a Milano c’è stato e ce lo ripete sem-pre per far capire che lui è uno importante”.
Quell’anno il campionato finisce prima per permettere alla Nazionale di prepararsi al meglio per i Mondiali messicani. Il 12 aprile, nel vecchio “Amsicora”, il Cagliari riceve il Bari: è la partita che può consegnare matematicamente lo scudetto ai sardi e l’intera isola si mobilita per la grande festa. Ci sono persone che partono dall’en-troterra la sera prima, emigrati che ritornano a casa per l’occasione, nessuno intende mancare a quello storico appuntamento, a novanta minuti di intenso conto alla rovescia. Infatti, già al 39°, il pubblico può cominciare ad esultare per una rete del solito Giggirrivva. Poi, nella ripresa, l’Amsicora è scosso da un secondo boato non appena dalle radioline arriva la notizia del vantaggio della Lazio sulla Ju-ventus. È fatta. Adesso c’è anche la certezza matematica. Quando, a due minuti dalla fine, Gori mette in rete il pallone del 20, la festa è già cominciata, sugli spalti, in città e in tutta l’isola. “Era la festa di tutti – ricorda il giornalista Gianni De Candia –. Cagliari non aveva mai vissuto giorni così felici. Neanche dopo la fine della guerra”.
Riva, Albertosi, Domenghini, Cera, Niccolai, Gori, partono tutti per il Mondiale messicano e saranno tra i protagonisti di quelle che pas-seranno alla storia come le prime notti magiche italiane. Leggen-dario il commento di Manlio Scopigno alla notizia della convocazione del suo rude e generoso difensore, Comunardo Niccolai: “Dalla vita mi sarei aspettato di tutto, ma non di vedere Niccolai via satellite”. Prima ancora che ironica e canzonatoria, quella frase è una magni-fica fotografia del tempo. Citata e ripresa più volte, molti anni dopo darà il titolo ad un romanzo (“Niccolai in mondovisione”) dello scrit-tore-sceneggiatore sardo, Bepi Vigna.
*****
Dopo quasi quarant’anni, quello scudetto è ancora ricordato come fosse ieri. Per la Sardegna è un periodo indimenticabile, così come indissolubile è il cordone che lega il popolo sardo a Gigi Riva, il quale riceverà anche la cittadinanza onoraria di Cagliari. “Una volta – racconta – sono entrato a casa di una vecchietta, a Seui. Sul muro, accanto alle foto dei suoi familiari, era appesa anche una mia fo-tografia. In quel momento ho capito che davvero consideravano an-che me uno della famiglia”.