venerdì

Pensieri in diretta mondiale

11 giugno - 11 luglio: il diario di bordo di Sudafrica 2010

Lunedì 12 luglio
Spagna campione




Domenica 11 luglio
Dov’eri tu quell’11 luglio?
Esattamente 28 anni fa, intorno alle 21.25 ora italiana, Marco Tardel-li concepiva l’esplosione di gioia per antonomasia, il celeberrimo Ur-lo del Bernabeu, per fama secondo solo a quello di Munch. In quell’in-contenibile e liberatoria esultanza c’era, innanzitutto, la consapevo-lezza di una rete che metteva al sicuro il risultato a venti minuti dal-la fine. Venti minuti da godersi in ogni istante. Quando ormai è fat-ta, l’avversario è inerme e “non ci riprendono più, non ci riprendono più”. Quando tutto sembra troppo facile e perfetto. Quando si vor-rebbe fermare il tempo.
Tutto ciò potrebbe accadere nella tarda serata di oggi se gli spagnoli chiudessero la partita prima del novantesimo. Per loro chiediamo so-li venti minuti, non di più. Lo stretto necessario perché tutti possa-no godersi la gloria, percepire l’impresa. Quel breve lasso di tempo affinché tutti, in Spagna e a Johannesburg, si sentano protagonisti di una grande e piccola storia. Vogliamo che Puyol abbia il tempo di guardarsi la maglia, capire cosa sta accadendo e che quel momento non tornerà più. Vogliamo che chi è a casa davanti alla tv possa fer-marsi qualche attimo guardandosi intorno. Vogliamo che ogni spagno-lo possa un giorno rispondere alla domanda “Dov’eri tu quell’11 lu-glio?”.
Con il Paraguay la palla era ancora tonda e ogni sorpresa possibile. Poi Casillas, la Castiglia, la Catalogna e i Paesi Baschi hanno parato quel rigore e si è entrati nella lunga ed elettrica settimana che porta dritta alla Storia. Quella settimana in cui non importa chi è l’avversa-rio, tanto non ce n’è per nessuno. Quella settimana in cui si avverte nell’aria che è “Adesso o mai più”. E allora stasera, domenica 11 lu-glio, rivogliamo l’Urlo del Bernabeu. Vogliamo che Casillas, Ramos, Capdevila, Piqué, Puyol, Busquets, Iniesta, Xabi Alonso, Villa, Xavi, Torres, Fàbregas, Silva, Del Bosque e tutta la Spagna si sentano in-vincibili ancora per venti minuti. Perché poi, tanto, arriva il triplice fischio finale a sancire l’apoteosi e il punto di non ritorno.

Sabato 10 luglio
Per non dimenticare






Venerdì 09 luglio
Tifiamo Spagna
Domenica la Spagna può scrivere la storia, l’Olanda distruggerla. In un colpo solo, ne distruggerebbe due: la propria e quella che, appun-to, gli spagnoli meriterebbero di scrivere. La propria perché gli olan-desi, con una formazione a cui onestamente il secondo posto va an-che largo, salirebbero sul gradino più alto del mondo, quasi a stupra-re il ricordo della prima vera Arancia Meccanica, quella di Cruijff, os-sia una delle Nazionali più forti di tutti i tempi, che ha dato il via al-l’intera storia calcistica olandese. L'Olanda di oggi, ad eccezione di Sneijder e Robben, ci sembra decisamente inferiore non solo alla pri-ma (quella dei Cruijff, Neeskens, Krol, Van Hanegem, Haan, Rensen-brink, Rep, Van de Kerkhof) ma anche a quelle di seconda e terza ge-nerazione, vale a dire quella di Euro 1988 (Van Basten, Rijkaard, Gul-lit, Koeman, Van Breukelen, Wouters, Vanenburg, Kieft) e di Francia 1998 (Bergkamp, Overmars, Seedorf, Davids, De Boer, Cocu, Stam, Kluivert). E soprattutto, in chiave attuale, ci sembra nettamente in-feriore a questa Spagna. Sulla carta il confronto non regge: per titoli vinti, caratura ed esperienza internazionale, numero di Mondiali ed Europei disputati, presenze in Nazionale. Anche singolarmente, o re-parto per reparto, non c’è paragone. Casillas per Stekelenburg? Per cortesia. E il solo Puyol vale l’intera difesa olandese. Il centrocampo oranje non è male (Sneijder, Robben, Van Bommel, Van der Vaart, De Jong) ma nulla a che vedere con quello spagnolo, che è conside-rato il migliore al mondo, così come in attacco Villa e Torres a mezzo servizio sono meglio di Van Persie, Kuijt e Huntelaar. E il campo, do-menica, non può e non deve dire il contrario.
La Spagna, sin dall’inizio, ha avuto sulle spalle due fardelli: il ruolo di favorita e i tabù del passato. Non è stata una passeggiata, come per tante altre Nazionali che poi hanno vinto il Mondiale (pensiamo all’Argentina nel 1978, all’Italia nel 1982 e 2006, o alla Francia nel 1998). La sberla presa a freddo dalla Svizzera ha fatto riaffiorare tut-ti i fantasmi del passato: i complessi storici, la paura di non farcela, la barriera dei quarti, la prima Coppa del Mondo, l’accoppiata Euro-peo-Mondiale riuscita solo alle Nazionali che si sono fregiate del tito-lo di ‘Grandi’, la Grande Germania di Beckenbauer e la Grande Fran-ce di Zidane. Il cammino è stato nervoso, sentito, continuamente ac-compagnato dallo slogan, al tempo stesso esaltante e opprimente, Ahora o nunca màs (Adesso o mai più) che rimbombava forte dalla Spagna al Sudafrica. Poi gli ottavi, i quarti, l’ingresso in semifinale. I fantasmi del passato spazzati via, l’inizio dell’Operaciòn triunfo, il giornale Marca che per giorni ha aperto con un incoraggiante e coin-volgente ¡Podemos!, e i tedeschi che, a quel punto, potevano solo in-chinarsi allo stacco imperioso di Puyol. Il conto alla rovescia è già co-minciato. L’Olanda deve farsi da parte.

Tifiamo Spagna, spudoratamente.

Giovedì 8 luglio
L’ultima settimana in frasi

- Pelè su Maradona:
Non ho alcun problema con lui. Semplicemente penso che non sia un buon allenatore. Ha un modo di vivere inusuale: per una squadra non è un bene.

- Maradona risponde a Pelé:
Non lavora, non fa nulla, non ha altro da fare che criticare me. Se ne ritorni al museo. Io ho già vinto con la gente.

- Julio Cesar, dopo la sconfitta con l’Olanda:
Nessuno si aspettava questo ko. Il gruppo aveva molta fiducia, lavo-ravamo insieme ormai da tre anni. Ora dobbiamo uscire da questa si-tuazione, la vita va avanti.

- Ruud Krol sull’Olanda di oggi:
Rispetto a quella dei miei tempi quest’Olanda è meno spettacolare ma più pratica. Noi divertivamo la gente e giocavano con una certa incoscienza.

- L’allenatore del Ghana, Rajevac, dopo l’uscita dal Mondiale:
Non posso rimproverare niente ai miei. Hanno dato il massimo e ab-biamo fatto felice un continente.

- Maradona torna sulla finale persa contro la Germania Ovest nel 1990:
Una serata che non dimenticherò mai. Non posso perdonare chi ce la rovinò. La finale con la Germania fu una farsa. Fin dall’inizio. Non dimenticherò mai gli insulti e la totale mancanza di rispetto nei con-fronti della nostra nazione durante l’esecuzione dell’inno: fu som-merso dai fischi. La mia immagine apparve sul grande schermo e allora dissi, molto chiaramente, “Bastards”. Lo dissi lentamente, in modo che tutti avessero potuto capire. Volevo dirlo nell’orecchio di ogni spettatore, ero pronto a venire alle mani con ognuno di loro. Avevo promesso a mia figlia Dalma che sarei tornato a casa con la coppa del mondo ma mi ritrovai a spiegarle che nel calcio esisteva la mafia.

- Bastian Schweinsteiger in conferenza stampa:
I giocatori argentini sono scorretti e provocatori. Mancano di rispet-to nei confronti degli avversari e noi dobbiamo stare molto attenti a non cadere nella trappola. La provocazione inizia anche prima della partita. Basta vedere come gesticolano e cercano di influenzare l’ar-bitro. È una mancanza di rispetto, ma loro sono così. I tifosi argenti-ni occupano aree dello stadio anche se non hanno i biglietti per quei settori, costringendo i tifosi che avrebbero legittimo diritto per quei posti a sedersi altrove. Tutto ciò dimostra il loro carattere e la loro mentalità.

- Joachim Löw:
Nel nostro spogliatoio c’è libertà di parola. I giocatori sono autoriz-zati a fare valutazioni personali.

- Maradona, dopo il ko con la Germania:
Per me è stata una botta durissima. È come aver preso un cazzotto di Mohammed Ali.

- Humor inglese del Sun (stoccata agli argentini):
At least England scored twice (Almeno l’Inghilterra ha segnato due reti)

- Cristina Fernàndez de Kirchner, Presidente dell’Argentina:
Forza Maradona e forza Argentina. Le partite si vincono e si perdo-no. Dobbiamo andare avanti come il Paese ha fatto in momenti peg-giori. Vorrei che tutta la squadra venisse da me alla Casa Rosada, meritano di essere invitati. Ho chiamato Maradona ma non mi ha po-tuto parlare perché stava piangendo.

- L’allenatore dell’Uruguay, Tabàrez:
C’era una festa, non ci hanno invitati ma ci siamo imbucati. L’Olan-da ha più responsabilità e pressione di noi. Se vince, conferma i pro-nostici. Se vinciamo noi, sarà una sorpresa. Ci godiamo la sfida.

- Lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano:
Forse d’ora in poi, al posto della nostalgia per il passato, coltivere-mo la speranza.

- Joachim Löw sulla Spagna:
Il loro gioco è impressionante. Hanno tanti Messi, non uno solo. Nes-suna rivincita per la finale dell’Europeo 2008: noi perdemmo perché la Spagna fu di gran lunga la migliore del torneo.

- Franz Beckenbauer:
Schweinsteiger per il momento è il miglior giocatore del Mondiale. Dovesse vincere la Germania, sarebbe un candidato al Pallone d’Oro.

- David Villa:
Se io sono da Pallone d’Oro, Casillas lo è più di me.

- Grondona, presidente della Federcalcio argentina:
Maradona decida se restare o meno allenatore dell’Argentina. Diego è l’unica persona in questo Paese che può fare quello che vuole.

- Del Bosque, dopo la semifinale vinta:
Oggi i miei giocatori sono stati straordinari. Hanno fatto una grande partita, in ogni zona del campo.

- Joachim Löw:
Gli spagnoli sono stati più bravi, ci hanno nascosto la palla. Compli-menti, diventeranno campioni del mondo.

- David Villa:
Certo, abbiamo fatto la storia, per la prima volta siamo in finale. Ma il vero appuntamento con la storia è domenica.

- El Mundo:
El kamasutra del fùtbol – Se è vero che nel calcio c’è qualcosa di si-mile all’orgasmo, la Nazionale spagnola può provocarlo.

- El Paìs:
Ciò che sembrava un sogno adesso è realtà. È qualcosa che si rac-conterà di generazione in generazione con l’entusiasmo che merita, con voci rotte.




Mercoledì 7 luglio
Semifinale Spagna-Germania
“È la nostra grande occasione, ora o forse mai più. Bisogna approfit-tare del momento perché non sappiamo se tornerà. Di sicuro non per me. Io nel 2014 non ci sarò”. Lo ha detto Puyol, prima della partita con il Paraguay, seguita in Spagna da più di 13 milioni di telespet-tatori, con un picco massimo di share pari all’87,7%. “A due partite dal sogno”, “Avanziamo verso la gloria”, questi i titoli dei principali giornali spagnoli, in sintonia con il clima che si respira in ogni angolo del Paese, dalla Castiglia alla Catalogna. Ormai è chiaro che l’ingres-so tra le prime quattro del Mondiale è un risultato trascurabile. Tutto ruota intorno allo slogan Ahora o nunca màs (“Adesso o mai più”). Lo sanno in Spagna e lo sanno benissimo i giocatori, sulle cui spalle pesa tutta la responsabilità del momento.
Di fronte troveranno una Germania per nulla disposta a piegarsi al sogno spagnolo. I tedeschi stupiscono ogni partita sempre di più. In tutta sincerità non ci aspettavamo che una formazione così giovane potesse andare così lontano e, probabilmente, non se lo aspettavano neppure loro. Hanno un ottimo organico, un bravissimo allenatore e un trascinatore, Schweinsteiger, che non ricordavamo dai tempi di Matthaeus. Tuttavia, alla lunga, potranno pagare l’inesperienza, l’as-senza di Ballack, una difesa inventata d’urgenza, la squalifica di Thomas Müller, un cammino travolgente che di solito penalizza chi arriva in fondo. E il destino, se il destino vuole che la Spagna andrà a scrivere la storia.
Pronostico: SPAGNA

Martedì 6 luglio
Semifinale Olanda-Uruguay
In quanti avrebbero scommesso su una semifinale Olanda-Uruguay? I bookmakers, freddi calcolatori, a mala pena la contemplavano. Ma Olanda-Uruguay non avrebbe sfiorato la fantasia neppure di chi è cre-sciuto con il mito di Cruijff, o di chi, oggi più anziano, conserva nel-la memoria le gesta della Celeste bicampione del mondo nel 1930 e 1950. Perché l’una esclude l’altra. Proprio quando per l’Uruguay co-minciavano gli anni più bui, sbocciava il fenomeno Olanda. La Rivolu-zione dei Tulipani. Prima degli anni Settanta l’Olanda era un Paese calcisticamente irrilevante. Poi arrivò Johan Cruijff, l’Ajax, il calcio totale, l’irruzione sulla scena mondiale di una squadra che fece inna-morare il mondo intero. L’Arancia Meccanica, quel fascino romantico e malinconico dell’eterna incompiuta: due volte seconda dietro i pa-droni di casa della Germania Ovest e dell’Argentina. Oggi i loro nipo-tini, volutamente in maglia oranje a bande nere stile anni Settanta, vorrebbero arrivare lassù, sul gradino più alto.
L’Uruguay nella sua storia ha conosciuto tre fasi. La prima di gloria, vincendo il primo campionato del mondo organizzato in casa e poi, nel 1950, andandosi a riprendere la coppa nel Maracanà in lacrime. La seconda, idealmente conclusasi con il quarto posto di Mèxico 70, li ha visti declassati a terza forza del continente (dietro Brasile e Ar-gentina) e ricordati soprattutto come picchiatori. La terza fase com-prende, in pratica, gli ultimi quarant’anni, durante i quali la Celeste si è dovuta sudare la qualificazione al pari delle altre sudamericane minori (Cile, Paraguay, Perù, Colombia), spesso lasciando che fosse-ro queste ultime ad andare al Mondiale (come è successo nelle edizio-ni 1978, 1982, 1994, 1998 e 2006). Oggi gli uruguayani, delle quat-tro semifinaliste, sono gli unici a non avere troppi grilli per la testa. Sembrano accontentarsi di essere tornati a recitare il ruolo di terza forza del continente e di aver dato una lucidata al blasone.
Pronostico: OLANDA



Lunedì 5 luglio
Perché non un Club Italia?
Tra quarti e semifinali, torniamo ad interessarci ai fatti di casa no-stra. Dopo il tracollo azzurro, è stato detto di tutto e di più. Tra le al-tre cose, è emersa con insistenza la “necessità di investire sui vi-vai”. Non è stato però specificato chi avrebbe dovuto mettere mano al portafoglio. E il nocciolo della questione è proprio questo: trattan-dosi di un investimento a fondo perduto, chi dovrebbe cacciar fuori i soldi? Sarebbe competenza statale (o, di rimando, federale) ma sia-mo pur sempre in Italia, né possiamo pretendere che intervengano privati per amor di patria.
La Nazionale italiana in teoria è patrimonio di tutti, in pratica non è proprietà di nessuno. Gli unici in grado di investire denaro liquido sono i club, i cui presidenti hanno tutto il diritto di muoversi in base ai loro interessi. E se ritengono sia più conveniente acquistare pro-dotti già finiti, oppure ancora grezzi ma a basso costo (per esempio da Paesi africani), nessuno di noi può fargliene una colpa. Al massi-mo si possono usare le maniere forti, costringendo le società ad adeguarsi a regole che prevedano un limite di stranieri tesserabili o un certo numero di elementi in rosa provenienti dal settore giovani-le. In assenza di leggi, ogni club adotta la strategia di mercato che ri-tiene più congeniale.
A questo punto – suggeriamo noi di Undici – l’ostacolo potrebbe esse-re facilmente superato istituendo una sorta di Club Italia (pratica dif-fusa anche in altri sport) in cui far crescere e giocare talenti in erba che, altrimenti, non troverebbero spazio nei grandi club. Ecco come. La rosa sarebbe composta da giocatori tra i 18 e i 23 anni, regolar-mente tesserati per i club di appartenenza che, di fatto, ne manter-rebbero la proprietà e il diritto di riscatto in qualunque momento. La squadra, che sarebbe affidata ad un tecnico federale (o lo stesso del-l’Under 21), disputerebbe il campionato di serie A ma sarebbe esen-te da eventuali retrocessioni o piazzamenti in zona Coppe. Potrebbe aver sede a Coverciano, oppure in una qualsiasi piazza storica oggi fuori dal grande giro (per esempio Trieste, Mantova, Alessandria, Ve-nezia, Perugia, Avellino). Gli stipendi continuerebbero ad essere pa-gati dai club proprietari dei cartellini, e le società sarebbero ben con-tente di far crescere i propri giovani anziché lasciarli marcire in tri-buna (pensiamo al milanista Albertazzi, di cui si dice un gran bene eppure non trova spazio neanche tra le riserve delle riserve). A matu-razione completata, possono essere richiamati alla base o venduti a peso d’oro.
Siccome in Italia comandano i club, ci sembra l’unica soluzione prati-cabile. Ma comunque, non appena comincerà la nuova stagione, cam-pionato e Coppe sopprimeranno ogni interesse e dibattito sull’affa-ire Italia. E naturalmente della nostra Nazionale non gliene importe-rà più niente a nessuno. Fino al prossimo Europeo o Mondiale.



Domenica 4 luglio
Davvero la vecchia Europa arranca?
Quest’anno tre semifinaliste su quattro sono europee. Però è anche vero che, tra le prime otto, ci sono quattro sudamericane, tre euro-pee e un’africana. Di solito facciamo molto meglio. Ma davvero c’è da chiedersi se con Sudafrica 2010 la nostra leadership continentale possa essere messa in discussione? Aspettiamo a dirlo. Intanto que-sto Mondiale può concludersi con una finale tutta europea (prima vol-ta in un'edizione organizzata oltreoceano) e poi, si sa, storicamente le europee vanno meglio nelle edizioni casalinghe. Tuttavia, dobbia-mo prendere atto di aver conseguito risultati minimi nei quarti: quat-tro a tre per il Sudamerica.
Per farci un’idea, prendiamo in esame gli ultimi dieci Mondiali (da Mèxico 1970) e riportiamo i Paesi che, di volta in volta, sono entrati tra le prime otto (semifinali e quarti). Noteremo il divario tra l’Euro-pa e le altre confederazioni.

1970: in Messico
Prime quattro: BRASILE, ITALIA, GERMANIA OVEST, URUGUAY
Ai quarti: Inghilterra, Urss, Perù, Messico
(Europa 4 – Sudamerica 3 – Nord e Centro America 1)

1974: in Germania Ovest
Prime quattro: GERMANIA OVEST, OLANDA, POLONIA, BRASILE
Migliori del 2° turno: Svezia, Germania Est, Argentina, Jugoslavia
(Europa 6 – Sudamerica 2)

1978: in Argentina
Prime quattro: ARGENTINA, OLANDA, BRASILE, ITALIA
Migliori del 2° turno: Germania Ovest, Polonia, Austria, Perù
(Europa 5 – Sudamerica 3)

1982: in Spagna
Prime quattro: ITALIA, GERMANIA OVEST, POLONIA, FRANCIA
Migliori del 2° turno: Urss, Brasile, Inghilterra, Austria
(Europa 7 – Sudamerica 1)

1986: in Messico
Prime quattro: ARGENTINA, GERMANIA OVEST, FRANCIA, BELGIO
Ai quarti: Brasile, Inghilterra, Spagna, Messico
(Europa 5 – Sudamerica 2 – Nord e Centro America 1)

1990: in Italia
Prime quattro: GERMANIA OVEST, ARGENTINA, ITALIA, INGHILTERRA
Ai quarti: Jugoslavia, Cecoslovacchia, Eire, Camerun
(Europa 6 – Sudamerica 1 – Africa 1)

1994: negli Stati Uniti
Prime quattro: BRASILE, ITALIA, SVEZIA, BULGARIA
Ai quarti: Germania, Olanda, Spagna, Romania
(Europa 7 – Sudamerica 1)

1998: in Francia
Prime quattro: FRANCIA, BRASILE, CROAZIA, OLANDA
Ai quarti: Italia, Argentina, Germania, Danimarca
(Europa 6 – Sudamerica 2)

2002: in Giappone e Corea del Sud
Prime quattro: BRASILE, GERMANIA, TURCHIA, COREA DEL SUD
Ai quarti: Spagna, Inghilterra, Usa, Senegal
(Europa 4 – Sudamerica 1 – Asia 1 – Nord e Centro America 1, Africa 1)

2006: in Germania
Prime quattro: ITALIA, FRANCIA, GERMANIA, PORTOGALLO
Ai quarti: Brasile, Argentina, Inghilterra, Ucraina
(Europa 6 – Sudamerica 2)

2010: in Sudafrica
Prime quattro: GERMANIA, OLANDA, SPAGNA, URUGUAY
Ai quarti: Brasile, Argentina, Paraguay, Ghana
(Sudamerica 4 – Europa 3 – Africa 1)

* Prime quattro di Sudafrica 2010 riportate in ordine alfabetico

La superiorità dell’Europa è schiacciante. E lo è ancora di più se re-stringiamo l’analisi alle sole semifinaliste: in media, tre su quattro sono europee. A onor del vero, occorre anche dire che il Sudamerica, di fatto, può opporre solo Brasile e Argentina, ossia due delle otto consuete teste di serie (anche se lo status di testa di serie è una con-seguenza storico-meritocratica). In ogni caso, quest’anno alle semifi-nali portiamo ancora una volta tre squadre, ma il Sudamerica ne por-ta più di noi tra le prime otto.
Come mai? Innanzitutto può trattarsi di un singolo episodio. D’altron-de, anche nel 2002, Mondiale anomalo, l’Europa registrò un leggero calo (eppure portò quattro squadre contro una testa per Sudamerica, Asia, Nord e Centro America e Africa), per poi riprendersi subito nel 2006 piazzando quattro semifinaliste su quattro. Diciamo che lancia-re allarmi adesso è prematuro però, a naso, si avverte che qualcosa sta cambiando.
Senza dubbio, calcisticamente parlando, all’Europa non ha giovato lo sfaldamento di URSS, Jugoslavia e Cecoslovacchia. Tutto il blocco so-vietico, diviso, si è sensibilmente indebolito. Nonostante ciò, Nazio-nali di Paesi quali Russia, Rep. Ceca, Serbia e Croazia conservereb-bero comunque potenzialità per buoni piazzamenti.
A nostro avviso il problema è un altro e lo si individua facilmente nel momento in cui scartiamo dall’analisi le grandi Nazionali e ci concen-triamo sulle medie. Colossi quali Brasile, Germania, Italia, Argentina e via dicendo, non fanno testo. Eventuali loro flop sono episodici e ininfluenti. Invece, dove l’Europa sembra perdere terreno è sulle me-dio-piccole. È lì che il gap con il resto del mondo sembra essersi ri-dotto. È lì che, semmai, rileviamo un abbassamento di livello (oppu-re, molto più probabile, una crescita del livello altrui). Facciamo un esempio concreto. Più che i disastri di Francia e Italia (possono an-che starci), l’Europa in questo Mondiale ha pagato l’uscita di scena di Serbia e Danimarca per mano di Ghana e Giappone. Il decisivo 3-1 inflitto dal Giappone alla Danimarca è emblematico. Il vero proble-ma, quindi, è che l’Europa non trova più squadre minori che possano tamponare il buco lasciato dalle grandi. In quel momento perde il confronto con gli altri continenti. Prendiamo il 1974: quell’anno man-carono la qualificazione alla fase finale Inghilterra, Spagna, Francia, URSS e Portogallo. Eppure l’Europa portò tre squadre (Germania Ovest, Olanda e Polonia) tra le prime quattro, altre fecero una bella figura (Svezia e Germania Est). Un tempo le medio-piccole europee erano almeno due o tre spanne sopra qualsiasi altra formazione non europea (ad eccezione di Brasile, Argentina e Uruguay), riuscivano a superare con disinvoltura il girone e non di rado andavano pure lonta-no. All’Europa mancano squadre come Belgio, Svezia, Danimarca, Au-stria, Scozia, Ungheria. Ed è sul cadavere di queste che oggi si ergo-no Messico, Paraguay, Ghana e Giappone, non sui cadaveri di Italia e Francia.
E comunque c’è anche da dire che questo per l’Europa è stato un Mondiale sfortunato: due grandi che steccano (tre, se ci mettiamo dentro gli inglesi), scontri fratricidi quali Germania-Inghilterra e Spa-gna-Portogallo, alcune medio-grandi che non si qualificano (Russia e Rep. Ceca avrebbero potuto far più strada di Slovenia e Slovacchia), la papera di Green, senza la quale il Mondiale dell'Inghilterra avrebbe potuto prendere un'altra piega. Quisquilie che, però, sul bilancio del-la vecchia Europa pesano. Bilancio che, al momento, vede pur sem-pre tre semifinaliste europee, buone probabilità di una finale tutta europea e di portare a casa un’altra coppa, la seconda consecutiva.
Intanto, non tifiamo al ribasso, non gufiamo per partito preso contro una Germania o una Francia. Avere un’Europa più forte, non perdere posti e teste di serie, conviene a tutti.



Sabato 3 luglio
Quarti: Argentina-Germania e Spagna-Paraguay
Argentina-Germania – Argentini e tedeschi già a dicembre, al termi-ne del sorteggio, si erano dati appuntamento ai quarti. Hanno rispet-tato l’impegno. La Germania, per la 16esima volta consecutiva (cioè dal 1950), entra tra le prime otto: una continuità impressionante che dovrebbe far riflettere molto più di singole e sporadiche affermazio-ni assolute. Significa confermare sistematicamente il proprio status di potenza mondiale e ottenere sempre risultati non inferiori alle pro-prie possibilità. Tanto di cappello. L’Argentina oggi è alla cosiddetta prova del nove: sinora ha avuto vita facile, tra un girone modesto (Grecia, Nigeria e Corea del Sud) e un ottavo abbordabile (Messico). Adesso non si scherza più. E alla prova del nove è anche Maradona, tacciato di essere tatticamente molto scarso. Ma tanto, di qui a dieci giorni, si dirà tutto e il contrario di tutto: se vince sarà portato in trionfo, se perde sarà un allenatore improvvisato e anche un po’ patetico. Germania e Argentina si trovarono di fronte anche nei quarti di finale dell’ultimo Mondiale: allora andò bene ai tedeschi, che vinsero ai rigori. Questa volta diamo per favoriti gli argentini, più esperti. Una cosa è certa: si temono a vicenda, e anche molto.
Pronostico: ARGENTINA
Spagna-Paraguay – Adesso o mai più. Lo sanno tutti. Vamos a escri-bir la historia. E la semifinale è lì. C’è solo un Paraguay di mezzo.
Pronostico: SPAGNA



Venerdì 2 luglio
Quarti: Uruguay-Ghana e Brasile-Olanda
Uruguay-Ghana – Il vecchio e il nuovo. I nipoti di Schiaffino e Ghig-gia contro chi non ha antenati illustri. I campioni del mondo 1930 e 1950 contro un continente intero che si affaccia al grande calcio. Il mestiere contro chi quel mestiere ha fretta di impararlo. E non è det-to che oggi i ghanesi non ne sappiamo già abbastanza da far fuori i maestri, anche perché quest’Uruguay è una buona squadra ma non una corazzata insuperabile. Il Ghana, unica africana ancora in lizza, è la speranza di un continente in festa. La sorte però ha voluto che la Costa d’Avorio (la più accreditata e meritevole) andasse a sbatte-re contro Brasile e Portogallo, e che nel buco lasciato da Inghilterra e Francia si infilasse chi meno ne avrebbe potuto approfittare. Molto probabilmente ad andare avanti saranno gli uruguayani che tornereb-bero tra le prime quattro di un Mondiale dopo quarant’anni.
Pronostico: URUGUAY
Brasile-Olanda – Sino ad ora il Brasile ha dimostrato di aver vinto come e quando ha voluto: giocando dieci minuti contro la Corea del Nord, chiudendo la pratica qualificazione con la Costa d’Avorio, con-cedendo il pareggio al Portogallo, decidendo con quale risultato (3-0) sbarazzarsi del Cile. Questa volta, con l’Olanda, sarà partita vera. Considerati sin dalla vigilia la mina vagante del torneo, gli olandesi hanno il potenziale per battere chiunque e magari piazzarsi anche tra le prime quattro. Nonostante ciò, pur consci di decontestualizza-re situazioni e vicende, riteniamo quest’Olanda inferiore a quella di Cruijff e Neeskens (seconda nel 1974 e 1978) e di Hiddink (quarta nel 1998) perciò, in quest’ottica, una semifinale risulterebbe anche eccessiva. Paragoni storici a parte, per la squadra di Van Marwijk i quarti di finale sono comunque un buon risultato. Non si può dire lo stesso del Brasile: se si fermasse qui sarebbe un mezzo fallimento.
Pronostico: BRASILE



Giovedì 1 luglio
L’Italia che verrà
Mentre in Sudafrica il Mondiale va avanti, qui da noi è già comincia-ta l’era Prandelli. Tra chiacchiere e voci di corridoio, facciamo il pun-to sull’Italia che verrà.
Innanzitutto, quali sono i nostri verdi talenti? Noi all’orizzonte ne ve-diamo solo due: Santon (classe 1991) e Balotelli (1990). Il primo de-ve però trovare spazio nell’Inter, il secondo dimostrare di essere me-no enfant e più prodige. Per il resto, il nuovo commissario tecnico ha poca scelta, né può azzardare esperimenti a lungo termine perché già da settembre cominciano le qualificazioni ad Euro 2012 (girone con Serbia, Slovenia, Irlanda del Nord, Estonia e Far Øer) e non si può sbagliare. Per grandi linee, l’Italia è già fatta. Vediamo reparto per reparto.
Buffon garantisce affidabilità almeno per un altro quadriennio, ernia al disco permettendo. Dovrebbe operarsi subito e rientrare nel 2011. Siamo fiduciosi: non dovesse tornare quello di prima, sarebbe co-munque uno dei primi cinque portieri al mondo. Però, per qualche mese, resta il problema della sua sostituzione. Le gerarchie dicono che il secondo è Marchetti, ma si ipotizza anche il rientro part-time del più esperto Abbiati. Oggi come oggi cambia poco, bisognava pen-sarci prima. Abbiati poteva essere il dopo-Toldo (un vice affidabile come in passato lo sono stati Bordon per Zoff, Tacconi per Zenga e lo stesso Toldo per Buffon), invece si è cambiato continuamente ren-dendosi conto del problema solo nel momento dell’emergenza, per giunta in un campionato del mondo. La terza scelta dovrebbe ricade-re su Sirigu (tra i giovani, il più promettente). Nel giro anche Curci e Viviano.
Il reparto più preoccupante è la difesa, interamente da ricostruire. Non esiste una successione designata, né gerarchie da rispettare. L’unica certezza è Chiellini, che al centro dovrebbe essere affiancato dal fiorentino e prandelliano Gamberini. Potrebbero rientrare i vari Barzagli, Zaccardo e Bonera (tutti classe 1981), almeno in attesa di verificare il reale valore dei più giovani Bonucci, Bocchetti, Ariaudo e Ranocchia. Aspettando Santon (che può giocare su entrambe le cor-sie difensive), a destra dovrebbero contendersi il posto Maggio, Mot-ta e Cassani, mentre il nome nuovo potrebbe essere quello del fio-rentino De Silvestri (1988). A sinistra Criscito sembra in vantaggio sul nulla (l’unica alternativa sarebbe De Ceglie). Una difesa mode-sta. Anche qui gli errori sono a monte: Gamberini e Barzagli certa-mente non valgono Nesta e Cannavaro, ma avrebbero potuto essere convocati sistematicamente accumulando esperienza e presenze in attesa del ritiro dei senatori. Ci permettiamo di segnalare Diego Con-tento, terzino sinistro classe 1990 del Bayern: è nato in Germania da genitori italiani e ha doppia cittadinanza. Se Prandelli bruciasse sul tempo Löw e lo convocasse, potremmo disporne in futuro nel caso in cui si confermasse ad alti livelli.
Il reparto in cui siamo messi meglio è il centrocampo. Pirlo andrà avanti fino all’Europeo, De Rossi probabilmente anche oltre. Accanto a loro cresceranno elementi dal sicuro avvenire come Aquilani e Mar-chisio. Poi c’è Pepe, che un fuoriclasse non è ma nel suo ruolo non ha concorrenza. Ancora da decifrare Candreva. Tra i rincalzi, oltre a Palombo, potrebbe esserci spazio anche per i fiorentini D’Agostino e Marchionni. Infine, occhio a Poli, buon 1989 della Sampdoria.
Pochi problemi anche in attacco: Gilardino e Pazzini non sono Gerd Müller e Gigi Riva ma due buone prime punte lo sono. Poi Prandelli sembrerebbe voler riaprire a Cassano, il quale però finirà per schiac-ciarsi i piedi con gli emergenti Rossi e Balotelli. Resteranno nel giro anche Quagliarella e Borriello. Tra i giovani più interessanti indichia-mo Paloschi.
Se l’obiettivo è fare un buon Europeo, la squadra ne è sufficiente-mente attrezzata. Piuttosto, scommettiamo in quanto tempo al pove-ro Prandelli verranno i capelli bianchi? Euro 2012 o Brasile 2014?



Mercoledì 30 giugno
Italia, amarezza al risveglio: la fine di un ciclo
Il risveglio è stato amarissimo. Non tanto per la prematura uscita di scena in questo Mondiale, nemmeno tanto per la barbara maniera in cui si è compiuta, quanto per la consapevolezza di un vuoto enorme al cui confronto la sconfitta con la Slovacchia è un dettaglio quasi ir-rilevante. Certamente avremmo potuto fare molta più strada ma, in fin dei conti, chi se ne frega. Verranno altri Mondiali, verranno altre sconfitte. I sogni di gloria andati in fumo? Perché, ce n’erano? Sape-vamo a cosa andavamo incontro, solo che non volevamo ammetter-lo. Lippi e i suoi berlinesi erano la fotocopia di Valcareggi con i suoi messicani e Bearzot con i suoi spagnoli. Fantasmi che Lippi, i suoi senatori e noi per primi fingevamo di non vedere. L’unica incertezza era quando e con chi saremmo affondati. Ma è giusto che sia andata così. Comunque fosse andata, il risveglio sarebbe stato ugualmente amarissimo.
Il 3 luglio 1998 un'Italia mediocre veniva estromessa nei quarti dalla Francia futura campione del mondo. A Parigi, con Maldini padre cit-tì, riuscimmo a resistere per 120 minuti, fino ai rigori. L’indomani la Gazzetta dello Sport dedicò la prima pagina al migliore in campo, l’allora 24enne Fabio Cannavaro: “Fantastico, un applauso mondiale. Nonostante il durissimo colpo allo zigomo (4 punti di sutura) si è bat-tuto come un leone”. Poi, nel commento che accompagnava un 8 in pagella: “Esce vincitore da questa sfida. Assolutamente esaltante il modo in cui si avventava sui francesi e li ricacciava indietro. Non si è fermato neppure quando si è beccato una gomitata in faccia. Ha giocato per due, per tre. Spuntavano Cannavaro da tutte le parti. Si è consacrato difensore immenso”. Quel giorno ripartivamo da una certezza.
Intanto, accanto a lui cresceva una generazione di campioni che tut-to il mondo ci invidiava: Buffon, Nesta, Zambrotta, Pirlo, Totti, Del Piero. Erano tutti giovani ma già si aveva la percezione di un gruppo che avrebbe toccato le 80-90 presenze in Nazionale e coperto due o tre Mondiali. Buffon a 20 anni era già considerato il miglior portiere del mondo e sapevamo che lo sarebbe stato per i successivi 15 anni.
Abbiamo perso come tutti sappiamo l’Europeo 2000, poi siamo usciti molto male da Japan/Korea 2002 ed Euro 2004. Tuttavia, a settem-bre, ripartivamo sempre con delle certezze. E anche dopo il Mondiale nippo-coreano, quando capitan Maldini lasciò la Nazionale, il colpo fu attutito dalla consapevolezza di una difesa talmente forte da potersi concedere anche una perdita di quel calibro. Una difesa talmente for-te che a Berlino diventò un Muro.
Quattro anni dopo quel Muro è stato abbattuto a colpi di tosse da neozelandesi e slovacchi. Per loro è stato facile come sfondare un po-ster: l’Italia mondiale di Lippi era finita quella sera stessa a Berlino, esattamente come quella di Bearzot finì subito dopo i festeggiamen-ti nella pancia del Bernabeu.
Per un Mondiale vinto, se ne perdono altri cinque o sei, cosa ci costa sacrificarne uno? Sudafrica 2010 era una dovuta passerella prima del-l’inevitabile e definitivo sipario. Ripartiamo con il desiderio di un al-tro Sudafrica. Ma dovranno passare molti anni.



Martedì 29 giugno
Ottavi: Paraguay-Giappone e Spagna-Portogallo
Paraguay-Giappone – Doveva esserci l’Italia, poteva esserci la Da-nimarca. Invece, a contendersi questo ottavo di finale troviamo pa-raguayani e giapponesi. I giapponesi, poi. I giapponesi che giocano a calcio. Pensavamo fossero abili solo in fatto di macchine fotografi-che e nanotecnologia e invece hanno dimostrato di essere anche tat-ticamente molto disciplinati. Per come il Giappone ha annichilito la Danimarca (3-1), sembrava il Barcellona di Guardiola. E il Paraguay, per come si è difeso contro l’Italia, sembrava l’Inter di Mourinho al Camp Nou. In questa confusione spazio-temporale vanno avanti loro, una delle due sino ai quarti. Ben le sta alla vecchia Europa sprecona. Per il passaggio del turno il Paraguay è favorito d’obbligo. Tutto ha un limite.
Pronostico: PARAGUAY
Spagna-Portogallo – Gran bell’ottavo di finale questo tra Spagna e Portogallo: due squadre fresche, in forma e che avrebbero meritato i quarti. Unica differenza: gli spagnoli hanno tutto per puntare al ti-tolo (o quantomeno non fermarsi qui) e non possono fallire. Li diamo favoriti anche per ragioni di ordine statistico: la Spagna non entra nelle prime quattro da sessant’anni (Mondiale in Brasile nel 1950) mentre il Portogallo – che a dire il vero non ha mai avuto molta fortuna in questa competizione – è reduce dal quarto posto ottenuto nel 2006, difficile bissarlo. Un’ultima considerazione: i portoghesi non hanno ancora subito reti, gli spagnoli finalizzano poco rispetto alla grande mole di gioco che esprimono. E per il momento nessuna partita è ancora finita ai rigori.
Pronostico: SPAGNA



Lunedì 28 giugno
Ottavi: Olanda-Slovacchia e Brasile-Cile
Olanda-Slovacchia – Per giorni interi gli italiani si sono domandati se sarebbe stata meglio una Olanda oggi o una Spagna domani. Nulla di tutto ciò: gli azzurri tornano a casa e agli ottavi, contro gli olande-si, ci vanno gli slovacchi. Quello tra Olanda e Slovacchia è un ottavo di finale classico (visto l’andamento degli altri accoppiamenti), cioè tra una squadra di prima fascia e una outsider già appagata per aver messo il muso fuori dal girone. Escludiamo sorprese.
Pronostico: OLANDA
Brasile-Cile – Altra partita dall’esito abbastanza scontato. Brasile e Cile si trovarono di fronte anche negli ottavi di finale di Francia '98. Allora finì 4-1 per i brasiliani. Non vediamo perché questa volta le cose dovrebbero andare diversamente. Facile che i cileni la buttino in rissa, sono specialisti.
Pronostico: BRASILE


Domenica 27 giugno
Ottavi: Germania-Inghilterra e Argentina-Messico
Germania-Inghilterra – Una classica del calcio europeo e mondiale già agli ottavi. Troppo presto. I tedeschi hanno fatto il loro dovere vincendo il girone, gli inglesi no, mettendo nei guai se stessi e gli altri. In ogni caso è andata così e una delle due domani tornerà già a casa. Si salvi chi può. Arrivano all’appuntamento con stati d’animo opposti: l’Inghilterra con quello di chi ha superato indenne il momen-to critico, la Germania con quello di chi ha cominciato col botto per poi subire un’involuzione anche psicologica. Entrambe con la consa-pevolezza di essere meno forti di quanto pensavano. E oggi, anche se non lo dicono, hanno molta paura. Gli inglesi sono più esperti, i tedeschi troppo giovani per andare lontano (cioè oltre i quarti). Ep-pure non è detto che Dio salverà la Regina. Partita apertissima.
Pronostico: GERMANIA
Argentina-Messico – Per Maradona è il Mondiale dei corsi e ricorsi storici: prima pesca nel girone Corea del Sud (come Mèxico 1986), Grecia e Nigeria (come Usa 1994), adesso negli ottavi il Messico, un nome per lui fortemente evocativo. Poi, nei quarti, completerebbe questo déja-vu affrontando la vincente tra Germania (allora targata Ovest, finalista all’Azteca e all’Olimpico) e Inghilterra (la Mano de Dios). Oggi a scendere in campo sono altri, eppure la mano più in-quadrata è ancora la sua, mentre in panchina per novanta minuti stringe un rosario. Sembra avere cuore e modi di un bambino. L’al-tro giorno, in sala stampa, ha riconosciuto Bagni, suo compagno ai tempi di Napoli, ed è corso ad abbracciarlo scavalcando le transenne. Gesti tanto genuini quanto plateali, le cui immagini fanno subito il giro del mondo. Quest’Argentina si identifica in lui: di stelle ne ha tante (Messi, Veròn, Samuel, Higuaìn, Tèvez) ma nessuna brilla co-me la sua. Ha vinto il girone con autorità e sembra anche essere la squadra con il morale più alto. Non vediamo come il Messico possa rappresentare un ostacolo.
Pronostico: ARGENTINA



Sabato 26 giugno
Ottavi: Uruguay-Corea del Sud e Stati Uniti-Ghana
- Cominciano oggi gli ottavi di finale. Gli inglesi li chiamano anche knock-out, i brasiliani mata-mata, espressioni che rendono la dram-maticità dell’eliminazione diretta. Si decide tutto in 90 minuti, che a volte diventano 120 o anche più. Non sempre il tabellone segue la meritocrazia iniziale delle teste di serie: se una di queste sballa (esce al primo turno o non passa come prima), finisce per sconquas-sare ogni previsione e far sì che alcune big si accoppino subito tra loro, rendendo ancora più drammatico il "mata-mata" in una sorta di “mors tua, vita mea”. Quest’anno non tutti i quattro blocchi di partenza risultano equilibrati (per equilibrio intendiamo l’equa distri-buzione di teste di serie): in uno abbiamo solo outsiders (Uruguay, Corea del Sud, Stati Uniti e Ghana), in un altro tre grandi del calcio mondiale (Argentina, Germania e Inghilterra) a scannarsi tra loro per un solo posto in semifinale. Vince il gioco chi non muore.
Uruguay-Corea del Sud – Tabàrez torna sulla panchina dell’Uruguay e dopo vent’anni riporta la Celeste agli ottavi di finale. Obiettivo mi-nimo raggiunto. Ora, grazie alla débâcle francese e l’inatteso primo posto nel girone, la strada sembra addirittura spianata: subito un av-versario abbordabile quale la Corea del Sud e poi, nei quarti, la vin-cente di Stati Uniti-Ghana. E se alla vigilia la semifinale era un risul-tato al di là di ogni più rosea previsione (gli uruguayani non entrano nelle prime quattro da Mèxico 1970) oggi improvvisamente non lo è più, anzi, diventa ampiamente alla loro portata.
Pronostico: URUGUAY
Stati Uniti-Ghana – Gli Stati Uniti, al loro sesto Mondiale consecu-tivo, fanno passi da gigante. Primo posto fortuito (l’Inghilterra è pa-lesemente superiore), rosa non all’altezza delle pretendenti al titolo, eppure sono lì, con un piede già nei quarti, al posto di inglesi e fran-cesi. Agli statunitensi manca solo tradizione, esperienza e una rosa di caratura internazionale. Il vero salto di qualità lo faranno quando i loro principali giocatori saranno titolari in grandi club europei. Allo-ra, davvero, le cose cambieranno. Quanto al Ghana, la cui qualifica-zione al turno successivo è già un buon risultato, difficilmente riusci-rà a sfruttare un calendario non impossibile.
Pronostico: STATI UNITI



Venerdì 25 giugno
Ultima giornata gruppi G e H: il punto della situazione
Gruppo G – Brasiliani e portoghesi parlano la stessa lingua, difficile non comprendersi: un pareggio qualifica entrambe. La Costa d’Avo-rio, oltre a sperare nella vittoria del Brasile, è chiamata anche a rad-drizzare una differenza reti largamente a favore del Portogallo.
Pronostico: BRASILE e PORTOGALLO
Gruppo H – Girone apertissimo, può succedere ancora tutto. Le ulti-me due partite, Spagna-Cile e Svizzera-Honduras, dovrebbero risol-versi con i successi di spagnoli e svizzeri che, così, aggancerebbero i cileni a sei punti. Deciderà la differenza reti e rischiano tutte, inclu-sa la Spagna (che potrebbe pentirsi dello striminzito 2-0 all’Hondu-ras). Pronostico incerto ma a favore degli spagnoli che, vincendo, da-rebbero involontariamente una mano alla Svizzera. Attenzione: se la Spagna passasse come seconda potrebbe crearsi un intasamento di big (Brasile, Olanda e la stessa Spagna) da una parte del tabellone e un buco dall’altra, dove tra Portogallo, Paraguay, Giappone e Svizze-ra/Cile una arriverà dritta in semifinale.
Pronostico: SPAGNA e SVIZZERA



Giovedì 24 giugno
Ultima giornata gruppi E e F: il punto della situazione
Gruppo E – Per l’Olanda è già fatta, resta da assegnare un altro po-sto. Se lo giocheranno Danimarca e Giappone nello scontro diretto. I giapponesi hanno a disposizione due risultati su tre (il pareggio li premierebbe per una migliore differenza reti), mentre i danesi sono costretti a vincere. Si decide tutto in novanta minuti. Malgrado la maggiore esperienza internazionale della Danimarca, ci sentiamo di dare leggermente favorito il Giappone.
Pronostico: OLANDA e GIAPPONE
Gruppo F – Per l’Italia possibilità di chiudere il girone al primo posto ridotte al lumicino ma qualificazione assolutamente non compromes-sa. Dovrà vincere con la Slovacchia, e ci riuscirà. Più facile per il Pa-raguay, che dovrebbe sbarazzarsi senza problemi dei neozelandesi, i quali in questo Mondiale hanno già fatto abbastanza, forse anche troppo.
Pronostico: PARAGUAY e ITALIA



Mercoledì 23 giugno
Ultima giornata gruppi C e D: il punto della situazione
Gruppo C – L’Inghilterra deve vincere e ci riuscirà. Non può assoluta-mente accontentarsi del pareggio, neppure se da Pretoria (dove con-temporaneamente giocano Stati Uniti e Algeria) arrivassero notizie rassicuranti. La Slovenia nell’ultima partita si è suicidata: aveva la qualificazione a portata di mano e ora rischia di uscire dal Mondiale. Il successo degli statunitensi sugli algerini non ci pare così scontato ma per il passaggio del turno diamo loro un leggero vantaggio.
Pronostico: INGHILTERRA e STATI UNITI
Gruppo D – La Germania si è complicata la vita andando a perdere con la Serbia che, a sua volta, adesso rischia di non passare per la sconfitta iniziale con il Ghana. Gli africani, dal canto loro, non sono riusciti a superare l’Australia in dieci, buttando via buone possibilità di qualificarsi. Dovrebbero spuntarla le due europee alle quali baste-rà vincere l’ultima partita. Paradossalmente, a rischiare di più è pro-prio la Germania che con un pareggio potrebbe anche essere fuori.
Pronostico: GERMANIA e SERBIA



Martedì 22 giugno
Ultima giornata gruppi A e B: il punto della situazione
Gruppo A – Ormai è tutto deciso. Domenech ha detto: “C’è solo una infinitesimale possibilità di passare il turno e non dipende da noi”. E così è. Il biscotto tra Uruguay e Messico è garantito, tanto più che (a prescindere dalle dichiarazioni della vigilia) a nessuna delle due con-verrà rischiare la qualificazione per evitare l'Argentina negli ottavi. La Francia cercherà di uscire con onore battendo il Sudafrica.
Pronostico: URUGUAY e MESSICO
Gruppo B – L’Argentina ha la qualificazione in tasca, le è sufficiente un pareggio per assicurarsi il primo posto. La Grecia pagherà carissi-ma la sconfitta all’esordio contro la Corea del Sud alla quale, oltre ai tre punti, ha consentito una miglior differenza reti. Agli asiatici, con-tro la modesta Nigeria, potrebbe anche bastare un pareggio ma non è detto che lo ottengano facilmente, anche perché non si è ancora ca-pito quanto effettivamente valgano i coreani (e quanto modesti sia-no i nigeriani).
Pronostico: ARGENTINA e COREA DEL SUD



Lunedì 21 giugno
Adieu Domenech, gestione tutto sommato positiva
“È la sconfitta della mia politica”. Lapidario il commissario tecnico Raymond Domenech dopo la partita con il Messico che, di fatto, ha messo fine al Mondiale della Francia. Un Domenech così dimesso non lo avevamo mai visto. Ci aveva abituati a ben altre esternazioni, sin-tomo che il suo tempo è finito e l’era Blanc è alle porte. Questa Fran-cia è uscita male, non le si chiedeva il titolo ma i quarti poteva rag-giungerli. I bleus hanno pagato uno spogliatoio spaccato (ora disinte-grato), un allenatore che ha progressivamente perso autorevolezza, ma soprattutto la perdita di elementi importanti (Zidane, Thuram e Vieira su tutti) e la decadenza di altri (Henry). Tutto ciò era nell’aria e l’Europeo del 2008 può essere considerato lo spartiacque della ge-stione Domenech: positiva la prima parte, negativa la seconda.
Alcuni giorni fa Marco Mazzocchi del commissario tecnico francese ha detto che “in tanti anni di Nazionale non ha mai vinto niente”. Significa quasi dargli del fallito. Non siamo d’accordo. Innanzitutto i “tanti anni di Nazionale” in realtà sono solo sei, periodo in cui ha preso parte a due Mondiali e un Europeo, grandi competizioni che non si vincono come fossero bruscolini. In quel quadriennio gli unici allenatori ad aver vinto (se proprio siamo costretti a parlare di vitto-rie assolute) sono stati Lippi e Luis Aragonés. Secondo questa assur-da logica, tutti gli altri allenatori dovrebbero essere considerati dei falliti. Il secondo posto ottenuto da Domenech al Mondiale del 2006 vale un’intera gestione: non va dimenticato che, a parte il trionfo nel 1998, è il miglior risultato conseguito dalla Francia in un campio-nato del mondo. Se diamo del fallito a lui, agli allenatori che hanno addirittura mancato la qualificazione alla fase finale (pensiamo a Gé-rard Houllier) dovremmo far fare la stessa fine di Giovanna d’Arco.
Poi, per forza di cose, il declino arriva per tutti, e riteniamo che il graduale calo della Francia sia soprattutto di natura fisiologica. Gli ultimi risvolti ne sono una conseguenza. È finita male, malissimo, ma una cosa è certa: Domenech ha fatto storia e sarà ricordato per molto. Di personaggi come lui il mondo del calcio, anche se li critica, ne ha assoluto bisogno.


Sabato 19 giugno
Il Sudafrica …torna a casa
Manca solo la certezza matematica. Martedì, salvo miracoli, il Suda-frica uscirà dal Mondiale. Sarebbe la prima volta che la Nazionale del Paese ospitante non riesce a superare il primo turno. Nelle prece-denti 18 edizioni non era mai successo. Eppure anche in altre occa-sioni è capitato che la fase finale fosse organizzata da nazioni cal-cisticamente minori (Svizzera, Cile, Messico, Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud). A dritta o storta, i padroni di casa almeno il primo turno lo hanno sempre passato, agevolati anche dallo status di testa di serie e quindi sorteggiati insieme ad avversarie quasi mai irresi-stibili. Non di rado, per spingere i Paesi ospitanti più modesti (ogni riferimento al Cile del 1962 è puramente casuale), si è ricorso a favo-ri arbitrali più o meno evidenti. Infatti, più che la prematura uscita di scena del Sudafrica, quel che più ci stupisce è la totale assenza di aiutini, piccoli o grandi che siano. Anzi, il rigore concesso all’Uru-guay (con relativa espulsione del portiere sudafricano) si poteva an-che “omettere” senza gridare allo scandalo. Una prima volta doveva esserci, peccato sia capitato proprio in questo Mondiale d’Africa. Co-sa pensare… Forse l’arbitro, snervato dalle vuvuzelas, ha voluto pu-nire così i padroni di casa.




Domenica 20 giugno
Campioni del mondo in cerca del bis
Un buon metro di paragone per valutare il Mondiale di una Nazionale campione in carica è fare un confronto con il passato, vale a dire mi-surare il piazzamento finale in base a quello di altre Nazionali cam-pioni in carica nelle altre edizioni. È un metodo freddo, svincolato da emozioni e particolarità del momento, eppure riesce a far compren-dere quanto sia difficile non solo ripetersi ma anche rientrare tra le prime quattro. Ecco perché, per l’Italia, riteniamo i quarti come ri-sultato sufficiente-buono e le semifinali ottimo.
Vediamo, stilando una sorta di classifica a cominciare dal 1966, sin dove le squadre campioni in carica si sono spinte al Mondiale succes-sivo.

– Brasile (campione 1994) nel 1998: 2° posto
– Argentina (campione 1986) nel 1990: 2° posto
– Brasile (campione 1970) nel 1974: 4° posto
– Brasile (campione 2002) nel 2006: fuori ai quarti
– Germania Ovest (campione 1974) nel 1978: fuori ai quarti
– Germania (campione 1990) nel 1994: fuori ai quarti
– Argentina (campione 1978) nel 1982: fuori ai quarti
– Inghilterra (campione 1966) nel 1970: fuori ai quarti
– Italia (campione 1982) nel 1986: fuori agli ottavi
– Francia (campione 1998) nel 2002: fuori al primo turno
– Brasile (campione 1962) nel 1966: fuori al primo turno


Lo stop ai quarti, come vediamo, è il più frequente (si è verificato 5 volte, quasi una volta su due), è successo poi in tre occasioni che la Nazionale campione in carica sia entrata tra le prime quattro e in al-trettante occasioni che sia uscita prima (due volte addirittura non è riuscita a superare il primo turno). Pensiamoci un attimo prima di andare in aeroporto con frutta e verdura. E in ogni caso siamo con-vinti che quest’anno l’Italia possa fare molta strada.



Venerdì 18 giugno
Dimmi chi alleni, ti dirò quanto vali
Il compianto Franco Scoglio sosteneva: “Sono il miglior allenatore del mondo, …al Genoa”. Intendeva dire che, per una serie di motivi (pro-fondo conoscitore dell’ambiente, passionale, amatissimo), al Genoa rendeva cento volte più che altrove e più di quanto qualunque altro bravo allenatore avrebbe reso al suo posto. Sono cose che, a volte, accadono davvero, e il Maradona commissario tecnico dell’Argentina ne è una prova. Maradona in una squadra di club sarebbe difficilmen-te proponibile ma con la selecciòn albiceleste (nonostante le difficol-tà iniziali) sta ampiamente dimostrando di saperci fare. Ama quella maglia, ama il suo Paese, ma per rendere al massimo ha bisogno di un microcosmo fatto a sua misura in cui sentirsi re incontrastato. Ha penato più del dovuto durante le qualificazioni, quando vedeva i suoi giocatori solo per pochi giorni e occorrevano tempi e modi da commissario tecnico tradizionale. Il ritiro di un Mondiale è invece il suo ambiente ideale: si è circondato di uomini e giocatori di sua e re-ciproca fiducia, ha creato – come lo chiama lui – un clan. Di tattica ne sa poco e poco ne vuole sapere, tant’è che ha richiamato il 35en-ne Veròn il quale in campo si comporta da (vice) allenatore e, spesso e volentieri, dà anche consigli alla panchina. Poco male: durante il mese mundial, più che un tecnico da lavagnetta, occorre un grande motivatore e Diego Armando Maradona lo è.
È il Maradona di sempre, quello che in allenamento si diverte a pal-leggiare e tirar punizioni. Se in partita il pallone finisce verso la sua panchina lo restituisce al campo accarezzandolo in mocassini, sapen-do che in quell’istante telecamere e occhi sono tutti per il suo piede sinistro. In conferenza stampa ripete le cose di sempre (l’amore per le sue figlie, il Che, la sua personale battaglia contro la FIFA, i batti-becchi con Pelè), e lo fa con il tono di sempre: a volte serio, a volte clown, a volte sensibile, a volte maleducato, a volte non lo sa nem-meno lui. Le lancette del tempo sembrano essere tornate indietro di vent’anni buoni, e un Maradona così non può che far simpatia. Gli piace avvertire interesse e calore, gongola alla sola idea che questa Argentina si identifichi in lui. L’altro giorno ha anche accolto in riti-ro la nonna delle Madri di Plaza de Mayo: questa volta, davvero, “25 milioni di argentini possono vincere il Mondiale” e lui dimostrare di essere il miglior allenatore del mondo …ma solo sulla panchina del-l’Argentina. E come Beckenbauer bissare il titolo vinto in campo.
Una sola cosa, Diego: ti abbiamo visto con un completo grigio. Me-glio in tuta. L’eleganza lasciala al Kaiser.


Giovedì 17 giugno
Esistono ancora le cosiddette squadre materasso?
Tutte e trentadue sono ormai scese in campo, grandi e piccole. Una sola partita, a prescindere dal risultato, dà poche indicazioni, tant’è che né l’ottimo debutto della Germania né l’allenamento (perché di allenamento si tratta) del Brasile o la sconfitta della Spagna ci hanno impressionato o fatto cambiare opinione. Le grandi vengono fuori al-la lunga, perciò rinviamo ogni valutazione.
Soffermiamoci invece sulle Nazionali minori: esistono ancora le co-siddette squadre materasso? Se giudicassimo le prestazioni di Stati Uniti e Corea del Sud (ma anche Giappone, Honduras, Nuova Zelanda e Corea del Nord) diremmo di no. Ormai, durante la prima fase a gi-roni, è sempre più difficile assistere a goleade memorabili (ricordia-mo Jugoslavia-Zaire 9-0, Polonia-Haiti 7-0, Ungheria-El Salvador 10-1). Ma ciò è dovuto unicamente ai progressi compiuti dai Paesi del terzo mondo calcistico? Non ne siamo così convinti: i passi avanti sono evidenti ma fino ad un certo punto. Cioè, vogliamo dire, da soli non giustificano risultati venti-trenta anni fa neppure immaginabili come sconfitte di misura o pareggi con Brasile e squadre europee. Crediamo, piuttosto, ad un approccio diverso. Oggi ci sono meno in-genuità e più tecnica, disciplina tattica, ma soprattutto una differen-te mentalità. Un tempo neanche troppo lontano, africane, asiatiche e caraibiche tornavano a casa con sconfitte e passivi molto pesanti. Per esempio, nel 1974, Zaire e Haiti incassarono complessivamente 28 gol in sole tre partite a testa. Ovvio che nelle successive edizioni si cercasse innanzitutto di limitare i danni, subire meno reti possibi-li, evitare figuracce. Solo in epoca più recente alcune africane sono riuscite ad affacciarsi fuori dal girone eliminatorio (nel 1986 il Ma-rocco, nel 1990 il Camerun, nel 1994 la Nigeria). Da allora il progres-so (che c’è stato e continua ad esserci) va di pari passo con la consa-pevolezza di poter ambire a superare il primo turno. Quindi, mentre le grandi giocano le prime partite al risparmio, le ex squadre mate-rasso se le giocano alla morte, in quanto il loro Mondiale si riduce al girone o poco più. E ogni qual volta la posta in palio non interessa in egual misura entrambe le squadre, il divario (o la fame di vittoria) finisce per ridursi sensibilmente. Un esempio. La differenza tecnica tra una squadra che lotta per lo scudetto (diciamo l’Inter) e una per non retrocedere (il Catania) è notevole. Però, se all’ultima giornata di campionato al Catania servisse una vittoria per salvarsi e l’Inter avesse già vinto matematicamente lo scudetto, il risultato della par-tita non sarebbe poi così scontato, anzi.
In definitiva, riteniamo che il termine squadra materasso sia esage-rato (soprattutto per alcune africane), tuttavia all’inizio di un Mon-diale sono i differenti interessi a livellare più del dovuto il divario tra le squadre. Come dire: il progresso c’è ma se si giocasse una sor-ta di campionato lungo, con partite di andata e ritorno, quel campio-nato sarebbe vinto sempre dalle stesse (Brasile, Italia, Germania...) con asiatiche e caraibiche in lotta per non retrocedere.



Mercoledì 16 giugno
Spagna, aspettiamo ad osannarla
La Spagna di qua, la Spagna di là, la Spagna così, la Spagna cosà… E vediamo questa Spagna cosa è capace di fare. Sia chiaro, a doman-da “È forte la Spagna?”, risponderemmo “Certamente, molto forte”, ma di qui a sostenere che vincerà a mani basse questo Mondiale ci passa, appunto, un Mondiale intero. Più che sprecarci in lodi (la qua-lità della rosa non si discute), preferiamo spendere due parole su al-cune remore, se non altro perché non capiamo la ragione per cui, a priori, alcune Nazionali debbano essere martoriate e altre osannate. Il calcio, soprattutto internazionale, è fatto di alti e bassi, episodi, stati di grazia, circostanze, fortuna. Dal Dopoguerra in poi, solo la Germania Ovest (Euro 1972 e Mondiale 1974) e la Francia (Mondiale 1998 ed Euro 2000) sono riuscite a vincere due grandi competizioni consecutive. È palese, quindi, che la Spagna sia chiamata ad un’im-presa non da poco: paradossalmente il confronto con il passato fa più paura delle avversarie di oggi (Brasile, Italia e Argentina). E poi, quale Spagna abbiamo in mente? Quella di Euro 2008? Quella che si identifica con il Barcellona 2009? Intanto la Spagna è stata buttata fuori per mano degli Stati Uniti dalla Confederation Cup (d’accordo, una coppetta da quattro soldi), il Barcellona dall’Inter in Champions League. Basta poco, psicologicamente, per non sentirsi più invincibi-li. Sono colpi che, al di là del risultato, feriscono l’orgoglio, e rara-mente nel calcio l’orgoglio ferito suscita il riscatto (di solito accade il contrario). Puyol e compagni cominciano l’avventura in Sudafrica consapevoli di essere forti, molto forti, ma non invulnerabili. Doves-sero vincere, e potrebbero benissimo farcela, allora sì che un posto tra i grandi di sempre non glielo toglierebbe nessuno.




-

Martedì 15 giugno
Brasile: più concretezza che futbol bailado
Dovessimo puntare 100 lire sulla vittoria finale di Sudafrica 2010, di-remmo Brasile. Non è la solita seleçao stellare, in termini dispregia-tivi è stata anche definita “troppo europea”, quasi “all’italiana”, ca-ratteristiche che, per come la vediamo noi, sono punti a suo favore. Tra tutti i commissari tecnici delle pretendenti al titolo, Dunga è il solo ad aver deciso la formazione già da un paio di anni, e spesso cocciutaggine e idee chiare vanno a braccetto. Sicuramente il Brasile in passato si è presentato con squadre più forti e spettacolari, ma ciò non significa niente. Questo è un Brasile tosto, quadrato, poco futbol bailado e molta concretezza. Magari oggi ai Ridolini della Corea del Nord ne faranno solo cinque, anziché otto, ma avranno più chances quando più avanti si troveranno di fronte Olanda, Italia o Spagna (e il cammino è duro, a cominciare dal girone). Una sola ri-flessione, peraltro strampalata, frena il nostro pronostico a favore del Brasile: dovesse vincere, e considerando quanto sia difficile bis-sare, i brasiliani finirebbero per rovinarsi in anticipo la festa per il Mondiale che ospiteranno nel 2014. Sarebbe tristissimo. Meglio, al-lora, che questa edizione vada a qualcun altro.
Portogallo-Costa d’Avorio completa il Gruppo G. Entrambe meritereb-bero di fare più strada, ma una delle due tornerà a casa subito, l’al-tra (visto l’intasamento di big da quella parte del tabellone) poco do-po. I portoghesi, rispetto agli ultimi anni, sono meno forti: in alcuni reparti hanno abbondanza e doppioni, in altri presentano vistose la-cune (manca un portiere e una prima punta all’altezza). La formazio-ne ivoriana, malgrado un Drogba a mezzo servizio, resta la migliore delle africane e avrebbe meritato un sorteggio più clemente. Vedre-mo chi tra Portogallo e Costa d’Avorio riuscirà a passare questo pri-mo turno.



Lunedì 14 giugno
Italia: ricominciamo da Berlino
E arrivò il giorno dell’Italia. Dove eravamo rimasti? Al rigore di Gros-so, in una Berlino tinta di azzurro. “Tutto vero”, titolò l’indomani la Gazzetta dello Sport. E quel tutto vero comprende anche il dopo, la cruda realtà di ogni post-trionfo, le difficoltà di un Mondiale affron-tato da campioni in carica, sapere in partenza che ripetersi è un’im-presa quasi impossibile. Non pretendiamola. Sarebbe come pretende-re di non accusare i postumi di una grande abbuffata. Quest’Italia è ancora molto forte (tra le migliori sulla carta) ma la verità è che è più facile perdere otto Mondiali di fila che vincerne uno. Oggi, con questa consapevolezza, ricominciamo dal Paraguay. L’importante sa-rà non esaltarsi o deprimersi con poco e, salvo risultati clamorosi, una prima partita non offre molti indizi.
Interessante anche Olanda-Danimarca, non solo in prospettiva otta-vi. Gli olandesi hanno una bella squadra, ma non così collaudata da poter andare in fondo in un Mondiale (l’Olanda quarta a Francia 1998 aveva più qualità e personalità). Possono accumulare esperienza per Euro 2012.


Domenica 13 giugno
Germania, panzer d'importazione
Terza giornata di questo Mondiale seguito per due terzi davanti al Televideo. Stasera tocca alla Germania, chiamata a sbarazzarsi della modesta Australia. Dovrebbe riuscirci senza problemi, come è nel suo stile. Generalmente i tedeschi ottengono il piazzamento che me-ritano, a volte vanno oltre, raramente al di sotto delle loro poten-zialità. Quest’anno la loro giusta collocazione sono i quarti di finale, e di arrivarci ci arriveranno. Non è una Germania fortissima, ha per-so pezzi importanti (Ballack) e rimpinzato la rosa con numerosi natu-ralizzati (Özil e Khedira, i migliori del lotto, sono talentuosi ma chis-sà se basteranno a compensare). Alcune certezze (Schweinsteiger, Lahm, Mertesacker, la coppia Klose-Podolski), qualche giovane inte-ressante (Neuer, Badstuber, Thomas Müller), peccato non disponga-no di una rosa al completo.


Sabato 12 giugno
Inghilterra e Argentina, appuntamento in semifinale
Oggi scendono in campo due probabili semifinaliste, Inghilterra e Ar-gentina. Meritano, però, considerazioni diverse. Gli inglesi, con Ca-pello, quest’anno avrebbero potuto davvero puntare al titolo (rosa di caratura internazionale, età giusta, esperienza) ma pagano i tanti infortuni, Beckham e Ferdinand su tutti. L’impressione è che il loro destino dipenda più da quanto riusciranno a fare le altre: tabellone non impossibile, possono arrivare lontano.
L’Argentina ha una squadra forte ed equilibrata ma potrebbe pagare l’inesperienza di un allenatore, Maradona, apparso più volte scrite-riato nelle sue decisioni. Nonostante ciò ha creato un clan di gioca-tori che lo seguono, sensibili al suo carisma. Non è da escludere che alla fine ci faccia fessi tutti. Anche per loro il calendario è abbordabi-le (unico ostacolo la Germania nei quarti), possono far strada.


Venerdì 11 giugno
Francia: meno forte del 2006 ma non debole
Si comincia sempre con i pronostici: un nome secco non siamo in gra-do di darlo in quanto, non essendo il Mondiale un campionato a giro-ne unico, tutto dipenderà dagli accoppiamenti in un tabellone quasi sempre molto ballerino. Diciamo che Spagna e Italia ci sembrano le più forti, Brasile e Argentina le più accreditate alla vittoria finale. Diamo poi l'Inghilterra tra le prime quattro. Sulla nostra previsione incidono anche riflessioni di carattere statistico: rivincere un Mon-diale è quasi impossibile, inglesi e argentini non sono semifinalisti da Italia 1990 e la Spagna dalla notte dei tempi.
Stasera occhi puntati sulla Francia, che sta meno male di quanto vo-glia far credere. Rispetto agli ultimi anni, ha perso in talento e gua-dagnato in muscoli, in più ritova tra i pali un ottimo portiere, Lloris. Tutto sommato, il livello qualitativo si è abbassato ma non è calato a picco. Ai Mondiali non si può andare sempre in fondo: i francesi nel 2006 sono arrivti secondi e non è detto che quest'anno un piaz-zamento inferiore sia necessariamente negativo. Per loro un buon ri-sultato sarebbe raggiungere i quarti. E, piano piano, possono arrivar-ci. Ma piano piano: un pareggio qua e una vittoria anche risicata là. Partenze lampo e roboanti lasciano il tempo che trovano.

mercoledì

Tifiamo Italia, perché non dovremmo?

Italiani scettici, ingrati e disfattisti, di Berlino un flebile ricordo
Undici suggerisce fiducia incondizionata ai campioni del mondo


Italiani strana gente. Strenui difensori dei club, diventano improvvi-samente cinici e disfattisti quando si tratta di Nazionale. Persino uo-mini di intelligenza e cultura riescono a difendere l’indifendibile del-le proprie squadre, a volte anche coprendosi di ridicolo, e poi manife-stare un’assoluta e inspiegabile intransigenza di fronte ai colori az-zurri. Non c’è mai qualcosa che vada bene: allenatore, convocazioni, scelte, modulo, giocatori. Gli stessi giocatori, difesi a spada tratta quando indossano le maglie dei club, diventano immediatamente dei mercenari, scansafatiche, vecchi, logori e buoni a niente quando ve-stono quella della Nazionale. I risultati, poi, sono sempre insoddisfa-centi, scadenti, e le previsioni catastrofiche. Un briciolo di ottimi-smo e fiducia non costa nulla, ma la nostra impressione è che alla Nazionale si vada addosso quasi per partito preso, che attorno ad essa (a prescindere da momento e situazione) vi sia una sorta di sfi-ducia cronica, incomprensibile anche se fossimo un Paese del terzo mondo calcistico.
Le ragioni alla base di questo nostro pessimismo cosmico sono es-senzialmente due: mentalità club-dipendente ed ignoranza di fondo. In pratica abbiamo una iper-sviluppata cultura da club ed una sotto-sviluppata educazione a tornei per squadre nazionali.

- Club-dipendenza. Il calcio, soprattutto in Italia, ruota intorno ai club. Sono loro ad acquistare i giocatori, pagarli, curarli e prestarli alle Nazionali. Il calcio dei club (campionati, Champions League, mer-cato) non ha soste e finisce per essere totalizzante, stabilendo tem-pi, modi, prassi e aspettative. Sicché tifosi e spettatori acquisisco-no una forma mentis club-dipendente. Ma club e Nazionale sono due realtà profondamente differenti e, quando a scadenza biennale ir-rompono Mondiali ed Europei, ci approcciamo ad essi con una “men-talità da campionato”. Cosa intendiamo dire. I grandi cicli dei club, per essere considerati tali, devono necessariamente includere – per dirla alla Mourinho – tituli (essendo questi più numerosi e messi in palio ogni anno). I piazzamenti contano relativamente e, in certi casi, poco o nulla. Per le Nazionali il discorso è l’esatto opposto: gli appuntamenti sono solo un paio, a scadenza quadriennale, e non è sufficiente presentarsi con una squadra forte per vincere (né si ha, come avviene per i club, la possibilità di riscattarsi dodici mesi dopo con la stessa formazione). I grandi cicli, quindi, non si misurano con i successi assoluti (casi rari, eccezionali, assolutamente straordina-ri) ma sulla base di valutazioni molto più elastiche e contingenti: momento storico, qualificazioni, rosa a disposizione, calendario, po-tenzialità delle altre squadre, piazzamenti complessivi, ecc. Tant’è che le vittorie dei Paesi calcisticamente più evoluti si contano sulle dita di una sola mano. Prima di vincere un Mondiale o un Europeo possono pure passare trent’anni senza che ogni singola edizione e l’intero intervallo di tempo siano considerati fallimentari.

- Ignoranza di fondo. L’erba del vicino pare essere sempre più ver-de della nostra, affermazione che nella stragrande maggioranza dei casi non contempla né la conoscenza della nostra erba né quella del vicino. Mondiali ed Europei sbucano fuori all’improvviso (la gente si disinteressa delle nostre qualificazioni, figuriamoci di quelle altrui) e, in quel preciso istante, ogni cittadino italiano si sente in dovere di esprimere la sua opinione: quasi sempre è negativa, il più delle volte anche errata, cioè basata non solo su pareri soggettivi e di-scutibili ma anche su dati di fatto privi di alcun fondamento, inesi-stenti.
-
Ecco come possono essere confutate alcune tra le frasi più gettonate (a volte sono solo incongruenti, altre volte semplicemente false).
“L’Italia non vince mai” – Quanto a titoli mondiali, l’Italia è seconda solo al Brasile (quattro a cinque) e in epoca recente ha portato a casa risultati tutt’altro che negativi: seconda nel 1970, quarta nel 1978, prima nel 1982, terza nel 1990, seconda nel 1994, prima nel 2006 (campione del mondo in carica). Quanto a continuità, e consi-derando anche gli Europei, solo la Germania ha fatto meglio. Nel frattempo (porca miseria, questi sì che sono fallimenti!), l’Inghil-terra ha mancato la qualificazione ai Mondiali 1974, 1978 e 1994, la Francia nel 1970, 1974, 1990 e 1994, l’Argentina nel 1970, la Spagna nel 1970 e 1974, l’Olanda post-Cruijff nel 1982, 1986 e 2002. E an-cora: l’Argentina prima del 1978 e la Francia prima del 1998 non avevano mai vinto un Mondiale, l’Inghilterra ne ha vinto uno solo (1966), la Spagna nemmeno uno. E anche il Brasile pentacampeon ha dovuto aspettare 24 anni (dal 1970 al 1994) per riportare a casa una Coppa del Mondo.
“Quest’anno siamo messi male” (per la cronaca: quel plurale è an-cora più irritante se usato solo per auto fustigarsi) – A prescindere dal fatto che la stessa frase viene estratta dal cilindro magico al-l’inizio di ogni Mondiale (1982 e 2006 compresi), a chi se ne riempie la bocca basterebbe domandare “Perché?” per non riuscire ad otte-nere una risposta di almeno una dozzina di parole messe in croce. Se poi chiediamo “Sapreste dire come sono messe le nostre dirette concorrenti?”, nel 90% dei casi la risposta sarebbe un dimesso e categorico “No”. Non siamo affatto messi male (noi). Sebbene dopo una vittoria mondiale sia difficilissimo ripetersi, abbiamo una delle migliori rose tra le pretendenti al titolo. Anche le altre hanno pro-blemi di diversa natura (a cominciare da Inghilterra e Germania, fal-cidiate da infortuni) e ogni allenatore, se potesse, attingerebbe dalla nostra Nazionale. La realtà dei fatti dice che (noi) siamo tra le av-versarie più temute, chiunque ci eviterebbe ben volentieri. Lo so-stengono esperti e addetti ai lavori. La parola di Franz Beckenbauer e Michel Platini contro quella di una qualunque casalinga di Voghera, che poi si permettere anche di aggiungere:
“Siamo vecchi” – Il Mondiale non è roba per minorenni (e la mag-giore età, nel calcio, equivale almeno a 26 anni, un altro Mondiale alle spalle e una cinquantina di presenze in Nazionale). Lo ha detto anche Boniek di recente: “Ci vuole esperienza, non giovani contenti di cantare l’Inno”. Nell’arco di un mese, per andare avanti, occorre innanzitutto mestiere e i nostri Buffon, Cannavaro, Zambrotta, Gat-tuso, Pirlo, ne hanno da vendere. Vi pare che potremmo fare più strada con seconde linee definite "più fresche e motivate" (e che, tutte insieme, non accumulano le presenze in Nazionale di un De Rossi)? Non avremmo chances. Semmai, il nostro tallone d’Achille è la quasi nulla esperienza internazionale di un Bonucci. D’altronde, per caso all’estero ci temono per Bonucci e Bocchetti? Macchè… Noi temiamo la Francia perché ha Henry (malgrado sul viale del tra-monto), la temeremmo ugualmente se al suo posto ci fosse il più fresco, pimpante e motivato Briand (chi è costui?). E, allora, perché criticare una gloria nazionale quale Cannavaro? Nereo Rocco dice-va “Mi fido più di Rivera con una gamba sola che del suo sostituto con due”, e noi pensiamo la stessa cosa di Cannavaro: non è più quello di quattro anni fa, d’accordo, ma ancora oggi chi è meglio di lui? Forse l’inglese Terry, forse. Per il resto in quel ruolo (Puyol, Sa-muel, Lucio) siamo lì. Sudafrica 2010 non è un Mondiale da vincere, ma Cannavaro, Zambrotta e gli altri vanno portati in primo luogo per gratitudine e poi perché continuano ad essere i più affidabili. Do-vessimo perdere, come probabilmente accadrà, che sia con loro.
“Perderemo!” – Se con quel “perderemo” si intende non centrare il primo posto, non abbiamo capito niente. In Sudafrica si va per un buon piazzamento. E siccome nei quarti potremmo trovarci di fronte la Spagna, fermarci allora vorrebbe anche dire uscire con dignità. Se poi riuscissimo ad entrare in semifinale sarebbe un risultato storico.
“Risultati scadenti” – Chi sostiene ciò, che almeno li elencasse que-sti risultati scadenti. Quali? Dove? Quando? Se ci riferiamo alla pe-nultima uscita con il Messico, prenderemmo in prestito la risposta di Bearzot che, a riguardo, ha detto: “Le amichevoli non contano nien-te”. Se ci riferiamo all’ultimo Europeo (gestione Donadoni), non ci risulta fallimentare un quarto perso ai rigori contro i futuri campioni d’Europa della Spagna (soprattutto se teniamo conto che ad Euro 2008 solo in quattro hanno fatto meglio della nostra Nazionale e che l’Inghilterra non si è neppure qualificata). La Confederations Cup, quello sì, può rappresentare l’unico campanello d’allarme, e comun-que il fatto che siano arrivati in finale gli Stati Uniti (battendo la tanto decantata Spagna) la dice lunga sull’importanza di quel torneo. Francamente la gestione Lippi è tutt’altro che costellata da risultati scadenti: nel suo quadriennio – per la serie “forse non tutti sanno che…” – si è registrato il record di risultati utili consecutivi, 31 (pri-mato che conta poco quanto l’amichevole con il Messico, ma perché dobbiamo sottolineare solo gli aspetti negativi?) ed è stato vinto con autorità il girone di qualificazione a Sudafrica 2010. In mezzo, come se fosse roba da poco, una Coppa del Mondo.
“Vergogna!” – Addirittura. Ciò che a noi sembra vergognoso, da vol-tastomaco, è che su Facebook nascano gruppi intitolati “Tifiamo contro l’Italia”, e che migliaia di quegli iscritti se la Nazionale do-vesse andare avanti poi si riverseranno nelle strade con tanto di bandiere tricolori e trombette. Si racconta che quando nel 1982 l’al-lora presidente di Lega Tonino Matarrese, dopo averne dette di cotte e di crude sulla squadra, entrò negli spogliatoi per unirsi ai fe-steggiamenti, molti senatori aprirono le finestre dicendo di senti-re “puzza di merda”. Si racconta anche che Tardelli lanciò verso di lui uno zoccolo. Proprio ieri Lippi ha dichiarato: “Se le cose andranno bene, questa volta sul carro dei vincitori non faccio salire tutti”.
Fino a venerdì i campioni del mondo siamo noi. Cosa ci costa aspet-tare Brasile e Spagna con un minimo di fiducia? E magari aggiunge-re, con un pizzico di orgoglio: “Venitevelo a prendere, se ce la fate”.

domenica

Scarti di Italia-Germania Ovest 4-3

Il prossimo 17 giugno la Partita del Secolo compie quarant’anni

Fra meno di un mese Italia-Germania Ovest 4-3, la Partita del Seco-lo, compie quarant’anni. In quei giorni saremo in piena sindrome mondiale, probabilmente troppo immersi nel nostro presente per ren-dere omaggio come si conviene alla regina delle partite, quella che dovrebbe intimidire tutte le altre, a cominciare da Grecia-Nigeria in calendario proprio il prossimo 17 giugno. Fossimo a capo della Rai, quel giorno manderemmo in prima serata la versione integrale del-l’incontro, con tanto di collegamento via satellite e telecronaca origi-nale di Nando Martellini. Ma, ahinoi, in Rai non abbiamo alcun pote-re decisionale, per cui ci tocca pensare ad altro. E poi, soprattutto, in quei giorni non vorremmo ridurci ad una distratta riesumazione di quanto già detto, scritto e tramandato in libri, film, documentari, opere teatrali, articoli di giornale e servizi televisivi. I nostri cari au-guri, allora, meglio farli in anticipo, trovando così anche il tempo per aggiungere qualcosa anziché ripetere.
In quarant’anni italiagermaniaquattroatrè è stata sviscerata all’inve-rosimile. Si è detto di tutto e di più, attenendosi però ad un canovac-cio, fondamentalmente blindato, che non ha concesso ulteriori inter-pretazioni. I temi topici sono stati approfonditi, arricchiti di partico-lari, testimonianze, ma non messi in discussione.
In un buon articolo di poche righe leggiamo del coinvolgimento na-zional-popolare, della storica staffetta, dei tachicardici supplemen-tari e dell’apoteosi al gol di Rivera. Approfondendo l’argomento, au-mentano anche i particolari: un quadro generale di Messico 1970, il primo vero e proprio Mondiale di massa, dettagli sulla spedizione azzurra, le scelte amletiche di Valcareggi, il significato latente di Ita-lia-Germania, lo stoicismo di Beckenbauer che gioca con una spalla slogata, le imprecazioni del toscanaccio Albertosi al gol di Müller, le città italiane in festa al fischio finale. Ma non solo. Analisi ancora più dettagliate riportano un’ampia panoramica delle vicende in Mes-sico (dal ruolo di Mandelli nella delegazione azzurra all’arrivo di Roc-co per coccolare il suo Rivera), i tanti perché della staffetta, nozioni fisico-motorie circa l’equilibrio di un calciatore con un braccio fa-sciato al busto, quanti secondi intercorrono da quando Rivera recu-pera il pallone dal fondo della nostra rete e lo va a depositare alle spalle di Sepp Maier, l’esultanza di milioni di italiani ancora svegli e incollati alla TV, i costumi del Paese, i caffè, le sigarette, i ricordi di studenti sessantottini alle prese con esami universitari e di maturi-tà. E poi, ancora, il valore storico-sociale di quell’affermazione, la guerra con i tedeschi, la ricostruzione, la generazione del riscatto. Il 4-3, la resistenza, i minuti che non passavano mai, due tempi sup-plementari lunghi quarant’anni e chissà quanto ancora.
Adesso, sebbene possa apparire un’operazione quasi destabilizzan-te, proveremo a dare un’altra interpretazione ad una serie di cliché letti e riportati sempre e solo secondo un punto di vista italiano.
*****
Da dove cominciamo? A livello concettuale, dall’idea stessa che gli italiani, non necessariamente over 40, conservano di quella partita. Nella memoria nazionale quell’incontro riesce ad eguagliare anche la mitica vittoria del Mondiale spagnolo (Berlino 2006 è forse ancora troppo recente per un’attendibile collocazione storica). La sua apo-teosi, se considerata in astratto (o meglio, da un pubblico neutrale), potrebbe anche apparire ingiustificata, o persino esagerata. In defi-nitiva, Italia-Germania Ovest è una semifinale vinta di un Mondiale perso. Ma, se leggessimo i dati nudi e crudi, diremmo che anche Italia-Bulgaria di Usa 1994 lo è (una semifinale vinta di un Mondiale perso). E, allora, la differenza qual è? L’emozione per un risultato altalenante, sofferto e sempre in bilico? Anche, ma non solo. Appare evidente che i bulgari (calcisticamente e non) non sono i tedeschi. E battere i tedeschi assume un duplice valore, soprattutto nel 1970.
Ma Italia-Germania Ovest 4-3 può essere considerata anche dai te-deschi la Partita del Secolo? Sì, a giudicare dai ricordi di molti dei protagonisti (Beckenbauer, Schnellinger, Müller), no se pensiamo al popolo tedesco negli stessi termini in cui consideriamo quello ita-liano. Per loro, la partita che emotivamente meglio rappresenta la vittoria per antonomasia e che più si avvicina alla nostra Partita del Secolo, potrebbe essere Germania Ovest-Francia 3-3, poi vinta ai rigori, di España 1982 (anche in questo caso, semifinale vinta di un Mondiale perso). Incontro sentito, difficile, combattuto, emozionan-te. Con i francesi in vantaggio 3-1 ai supplementari, i tedeschi rie-scono a recuperare (grazie anche a Rummenigge che entra in campo mezzo zoppo, e segna) e poi vincere. In quel successo ci sono tutti gli ingredienti per farne una Jahrhundertspiel (Partita del Secolo): impresa sportiva unita a spirito nazionalista, carattere, forza di vo-lontà, eroismo, epica. Forse, se proprio manca qualcosa, quel qual-cosa è la rivalsa storica.
Invece, contempla in pieno questo aspetto (la rivalsa storica) la vittoria dell’Olanda contro la Germania Ovest all’Europeo 1988. Ciò che per noi è italiagermaniaquattroatrè, per loro è olandagermania-dueauno. Due a uno, per giunta, a casa loro e in rimonta, nella semi-finale di un Europeo vinto. L’occupazione, le umiliazioni, l’antipatia per i tedeschi, la rivincita nazionale. Quella sera, al fischio finale, scesero in strada circa 9 milioni di olandesi (più del 60% della popo-lazione), il più grande raduno pubblico dai tempi della Liberazione. Poco dopo uscì un libro di poesie intitolato “Olanda-Germania. Poe-sia calcistica” (“Fin da quando ho memoria, e ancor prima, i tede-schi volevano essere campioni del mondo. …La dolce vendetta, cre-devo, non esiste o non dura che un istante. E poi ci fu quell’incredi-bilmente bella sera di martedì ad Amburgo. …I Caduti si alzarono esultanti dalle loro tombe”).
*****
Torniamo a noi. L’Italia arriva in Messico da campione d’Europa in carica. L’Italia, dunque, ha vinto l’Europeo 1968. Quanti italiani, ventenni o settantenni, lo sanno e lo ricordano? Quanti italiani, invece, seppur per sentito dire, hanno un vago e confuso ricordo di Italia-Germania Ovest 4-3? La differenza è abissale. Eppure si parla di un Europeo vinto, solo due anni prima, contro una semifinale di un Mondiale perso (partita bella, emozionante, avvincente, ma che non lascia traccia in alcun albo d’oro). La gente ricorda España 1982, ricorda anche altri momenti non necessariamente positivi o vicini ai giorni nostri (la Corea, l’illusione di Italia 1990) ma di quell’Europeo quasi niente, se non niente. Come se fosse scomparso nel nulla, in-ghiottito. Come se il ricordo di quel titolo europeo potesse offuscare la grandezza della Partita del Secolo. Allora, via dalla memoria. E così è: Italia-Germania Ovest 4-3 nell’immaginario collettivo italiano ha sostituito Euro 1968. Inconsapevolmente, abbiamo accantonato un trionfo per celebrare la Vittoria in senso lato.
*****
Andiamo avanti. Gianni Brera, in questa circostanza più che mai controcorrente, sosteneva che Italia-Germania fosse pari ad uno scempio calcistico e scrive: “I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti. Ben sette gol sono stati segnati. La gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l’infarto, non per ischerzo. Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l’aspetto tecnico-tattico. Sotto l’aspetto agonistico, quindi anche sentimenta-le, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la fini-scono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan). I tedeschi meritano l’onore delle armi. Noi ne abbiamo com-messe più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo. Ci è andata bene. Io non posso vedere il calcio al rovescio, sono pagato per fare questo mestiere”.
Chiariamo cosa intendeva dire: è opinione diffusa (non solo tra i difensivisti) che la partita perfetta, o quanto più prossima alla per-fezione, sia quella che termina zero a zero. Ciò perché ogni azione che si conclude con un gol presuppone almeno un errore dell’av-versario. E se consideriamo che quel giorno all’Azteca di reti se ne sono viste addirittura sette, il suo ragionamento non sembra poi così assurdo. In più, aggiungeva che per 90 minuti è stata una par-tita semplicemente normale, quasi noiosa. Più che la prima, ai no-stri fini ci interessa maggiormente quest’ultima considerazione.
Tutti (o quasi) hanno in mente i supplementari. Al termine dei 90 mi-nuti regolamentari, sull’1-1 (Boninsegna al 9° e Schnellinger al 92°), nessuno avrebbe avuto valide motivazioni per definirla la Partita del Secolo. La girandola di emozioni avviene tutta nei supplementari, esattamente in sette minuti (Müller al 94°, Burgnich al 98°, Riva al 104°, ancora Müller al 110°, infine Rivera al 111°). Perciò, possiamo affermare che la Partita del Secolo si concentra in una ventina di minuti o poco più: ogni fotogramma scolpito nella memoria degli italiani (e la stessa immagine eroica di Kaiser Franz Beckenbauer che guida i suoi con una spalla slogata e il braccio legato al corpo) è compresa in quel breve intervallo di tempo. Probabilmente, solo il pareggio tedesco di Schnellinger, realizzato a tempo abbondantemen-te scaduto, rientra a pieno titolo nel climax dell’incontro, e quindi nel mito. Per il resto, di quanto accaduto durante i primi 90 minuti, la gente ricorda poco o nulla. È avvenuta, dunque, una inconsapevole estensione dei supplementari (e dei suoi contenuti extra-calcistici) all’intero incontro. Sicché i Supplementari del Secolo diventano la Partita del Secolo.
*****
Infine, si dice che siano i vincitori a scrivere la storia. Complice anche una più florida letteratura sportiva italiana, pare così anche per italiagermaniaquattroatrè. Esistono infatti numerose riflessioni unilaterali: certamente interessanti e corrispondenti al vero ma anche concepite in base ad una prospettiva squisitamente nostrana. Per esempio si parla sempre dei 2.266 metri sul livello del mare di Città del Messico ma non si specifica che quell’altitudine avvantag-giava gli italiani (abituati ai 2700 di Toluca) e svantaggiava i te-deschi (che avevano sempre giocato ai 1800 di Leòn). Così come, a parziale giustificazione della sconfitta in finale con il Brasile, si dice sempre che l’Italia abbia pagato lo sforzo dei supplementari con la Germania Ovest, il che è vero, però occorrerebbe anche aggiungere che in semifinale anche i tedeschi avevano nelle gambe i 120 minuti del quarto vinto contro l’Inghilterra.
Concludiamo con un ultimo esempio. In una rilettura quasi filosofica della partita, riguardo alla rete segnata da Burgnich è stato anche scritto che, più del gol in sé, la grandezza/bellezza/virtù di quel gol risiede nell’idea stessa di aver solo pensato di poterlo realizzare. Spieghiamo. In un’epoca in cui i terzini quasi mai superano la metà campo avversaria, in un’epoca in cui il loro compito è tenere a bada con le buone o con le cattive l’attaccante affidato in consegna e non mollarlo mai, in un’epoca in cui a loro non è concesso osare, in un’epoca in cui la classe operaia lavora sporco per chi ha piedi buoni e ciuffi biondi, il 31enne rude difensore Tarcisio Burgnich pensa di poter segnare nella semifinale di un Mondiale. E allora lascia la sua zona di campo e va. Corre verso un sogno impossibile, quasi avver-tendo che quella non sarà mai una partita qualunque. E si trova lì, a tu per tu con l’immenso Sepp Maier. E il suo piattone che finisce nella porta tedesca, anche quello, è italiagermaniaquattroatrè.
Ma la stessa identica cosa potremmo dirla del terzino Karl-Heinz Schnellinger, che quel giorno realizza la sua unica rete in 13 anni di Nazionale. La sua Germania è sotto di un gol, siamo al secondo minuto di recupero e mancano pochissimi secondi alla fine. La forza della disperazione, l’idea di potersi sostituire per un solo istante a Gerd Müller. E dove un qualsiasi altro giorno ci sarebbe stato der Bomber der Nation, quel 17 giugno c’è lui. E allora allunga la gamba più che può mandando la palla in rete e la Germania ai supplementa-ri. E quella partita diventa italiagermaniaquattroatrè, la Partita del Secolo.

venerdì

Lo scudetto dell’isola

Quarant’anni fa l’impresa del Cagliari di Riva

I grandi club quasi perdono il conto dei campionati vinti. Le società sono abituate a vincerli e i loro tifosi a festeggiarli. Accade addirittu-ra che di una squadra scudettata si senta dire: “Però quella forma-zione era meno simpatica delle altre”. Alcuni titoli finiscono nel di-menticatoio, soffocati da altri o magari da stagioni più esaltanti e maggiormente sentite. Juventus, Inter e Milan riescono a vincerli an-che al termine di campionati tribolati o non particolarmente brillanti. Ci riescono meccanicamente, quasi per inerzia. Ricordiamo scudetti arrivati dopo contestazioni, con allenatori in partenza o spogliatoi spaccati all’interno. Alle altre società ciò non è concesso. Le altre, per cucirselo al petto, devono bramare per venti, trent’anni, anche una vita. Devono sudarselo, triplicare gli sforzi. E se arriva, non ac-cade solo perché si ha una squadra competitiva. Occorrono uomini giusti, allenatore giusto, ambiente giusto e momento storico favore-vole. L’ex presidente viola, Nello Baglini, sosteneva fosse indispen-sabile anche l’appoggio della stampa nazionale (“Posso dire di aver cominciato a costruire la Fiorentina da scudetto con i giornalisti di Milano”) e una buona dose di fortuna (“Il pallone può picchiare un palo e tornare in campo oppure rimbalzare e finire in porta”). In-somma, è necessario quello stato di grazia – imprevedibile, casuale, irripetibile – per cui diventa anche possibile rovesciare gerarchie e pronostici.
Quando lo scudetto si scosta dall’asse Torino-Milano è già un evento in sé. Lo sono persino quelli conquistati nella capitale. Pensiamo al primo storico scudetto, nel 1974, della Lazio di Maestrelli e Chinaglia e a quanto, ancora oggi, si continui a scrivere e a raccontare, come se davvero fosse una favola, quella dell’allenatore gentiluomo e della sua banda di scapestrati. Non meno osannato il campionato vinto nel 1983 dalla Roma di Viola, Liedholm e Falcao, dopo un interminabile testa a testa con la Juventus e un’attesa durata quarant’anni (e la stessa “Grazie Roma”, scritta da Venditti per l’occasione, testimo-nia l'eccezionalità di quell’evento). Quindi, se anche nella capitale lo scudetto viene accolto come cosa rara e preziosa, si può facilmente comprendere quale valore storico ne accompagni uno che prende vie ancor meno istituzionali. In quei casi a viverli non sono solo i tifosi o chi segue regolarmente la squadra ma un’intera città: assumono un significato extracalcistico, diventano inestimabile patrimonio cittadi-no. Ecco perché la gente di quei campionati ricorda ogni minimo par-ticolare, ogni fotogramma, momento, data, frase, aneddoto. Come un romanzo prima vissuto e poi raccontato, letto, riletto, tramanda-to e anche un po' enfatizzato.
*****
Lo scudetto del Cagliari 1969-70, lo scudetto dell’isola, è uno di quelli. È probabilmente il miglior esempio di un successo che trava-lica l’aspetto meramente calcistico e va ad inserirsi in un più ampio tessuto socioculturale. “Lo scudetto del Cagliari – scrive Brera – rap-presentò il vero ingresso della Sardegna in Italia. Fu l’evento che sancì il definitivo inserimento dell’isola nella storia del costume italiano. La Sardegna aveva bisogno di una grande affermazione e l’ha ottenuta con il calcio, battendo gli squadroni di Milano e Torino, tradizionalmente le capitali del football italiano”.


Gigi Riva e la Sardegna
Principale artefice di quell’impresa è il lombardo Gigi Riva. Arriva a Cagliari a 18 anni, pensando di farsi le ossa in provincia per poi tra-sferirsi in un club più prestigioso, ma con la Sardegna è amore a pri-ma vista e decide di non lasciarla più. In pochi anni diventa il miglior attaccante italiano e tra i più grandi di tutti i tempi (ancora oggi de-tiene il record di reti in Nazionale: 35, in 42 presenze). A nulla serve la corte, sempre più insistente, delle ricche e blasonate società del Nord: pur di non muoversi dall’isola rifiuta anche ingaggi triplicati. Il suo è un atto di fede che il popolo sardo ricambia ampiamente e che anche a distanza di quarant’anni, non dimentica. Prima ancora di un idolo sportivo, diventa simbolo di una regione e, più in generale, em-blema del calciatore-bandiera. Ancora oggi rappresenta la bandiera senza prezzo, che non si vende e non si compra neanche con tutto l’oro del mondo. “In quegli anni – ricorda Arrica, dirigente di quel Cagliari – la Juventus arrivò ad offrire ben sette giocatori (tra i quali anche i giovani e promettenti Gentile e Bettega) più un miliardo di lire del tempo. Dissi di no, ovviamente”.
Accanto a Riva (anzi, a Giggirrivva, come è ormai conosciuto ovun-que) anno dopo anno prende forma una squadra sempre più compe-titiva. Grazie anche ai contributi della Regione, di cui il presidente del Cagliari, Efisio Corrias, ne è a capo, arrivano ottimi elementi: i nazionali Albertosi e Domenghini (quest’ultimo dalla Grande Inter di Herrera), il brasiliano Nenè, il mediano e poi libero Cera, il centro-campista Greatti, il centravanti Gori, oltre ad importanti gregari quali Niccolai, Martiradonna, Tomasini, Zignoli e Brugnera. In sinte-si, due fuoriclasse (Riva e Albertosi) in una squadra operaia e una società che non ha mai vinto nulla: troppo poco per programmare il tricolore.


Scopigno, l’allenatore filosofo
Sullo sfondo, ma tutt’altro che defilata, la carismatica e disincantata figura dell’allenatore, Manlio Scopigno, il quale, per intelligenza, cul-tura, vena ironica, anticonformismo ed arte di sdrammatizzare an-che nei momenti più delicati, è detto il Filosofo. Sin dal suo arrivo a Cagliari, c’è un aneddoto che aiuta a chiarire personalità, ironia e rapporto con i giocatori. Lo racconta Cera: “Scopigno era arrivato da poco. Eravamo in ritiro in albergo. In sette o otto, e in barba alle regole, ci eravamo dati appuntamento in una camera per giocare a poker. Fumavamo tutti e giocavamo a carte sui letti. C’era anche qualche bottiglia che non ci doveva essere. Ad un certo punto, si apre la porta: è Scopigno. «Oddio – pensai – adesso ci ammazza». Tutti noi, preoccupati, aspettavamo la bufera. Scopigno entrò, nel fumo e nel silenzio, prese una sedia, si sedette vicino e, tirando fuo-ri un pacchetto di sigarette, disse: «Do fastidio se fumo?». Il giorno dopo vincemmo per 3-0”.
Ora, per comprendere a pieno il personaggio Scopigno, è necessario soffermarci sul periodo in questione e inserire l’allenatore sardo in un contesto più ampio.
La sua particolare personalità va ad allinearsi a quelle altrettanto eccentriche di molti suoi colleghi del tempo, contribuendo insieme a loro a dare sale e spessore ad una categoria che con gli anni acquista sempre più rilevanza, professionale e mediatica. Già dagli anni Ses-santa la figura dell’allenatore è tutt’altro che marginale e spesso so-vrasta quelle degli stessi giocatori. Gran merito di ciò lo si deve so-prattutto a personaggi quali Helenio Herrera e Nereo Rocco, caratte-rialmente molto diversi ma entrambi mattatori dal carisma impa-reggiabile. Grazie a Herrera (il quale, sfregando compiaciuto pollice con indice, non smette di sottolineare i vantaggi economici che ne derivano) aumentano in scala anche gli ingaggi. Lo stesso HH (sigla che non indica solo le sue iniziali ma che sta anche per Habla-Habla, ossia Parla-Parla) apre la strada alla tipica macchietta ispano-suda-mericana tanto in voga sul finire degli anni Sessanta, che trova nel Mago (chiacchierone, sbruffone, taccagno) il massimo esponente e validi epigoni in altri allenatori decisamente sopra le righe come il santone Juan Carlos Lorenzo, il profeta del “movimiento” Heriberto Herrera (detto HH2) e il vulcanico Luis Carniglia, il quale prima di rispondere a domande scomode per poi ribattere comunque senza peli sulla lingua, chiede sempre ai giornalisti se preferiscono riceve-re una risposta “para amigos o para la prensa”. La seria A italiana, quindi, può garantire un nutrito lotto di allenatori primi-attori, una categoria in continua ascesa che guadagna sempre maggiori con-sensi, considerazione e spazi, soprattutto mediatici. Sono costante-mente cercati da stampa e televisione per dichiarazioni, commenti e pronostici, sicuri del fatto che ogni risposta e intervento non sarà banale. Sanno riempire i giornali come e quando vogliono. Ed è sufficiente che Herrera in settimana affigga negli spogliatoi uno dei suoi celebri cartelli (recanti scritte tipo “Chi non dà tutto non dà niente”, “Classe + preparazione + intelligenza = scudetto”, “Chi gio-ca per sé, gioca per l’avversario”), o che lo scaramantico Lorenzo bruci le magliette dopo una sconfitta, perché i cronisti abbiano quotidianamente carne al fuoco. Lo spaccone Herrera, il finto burbe-ro Rocco, l’ex coreano tartassato Fabbri, l’incantatore Lorenzo, l’ar-gentino-napoletano Petisso Pesaola, i folcloristici sudamericani HH2 e Carniglia, l’altrettanto folcloristico meridionale Oronzo Pugliese, sciorinano tutti, in un’informe babele di lingue e contenuti, repertori che rivelano a seconda del caso scaltrezza e genuinità, fine umori-smo e autentica comicità.
Ed è in questo specifico contesto che Scopigno si introduce magnifi-camente. Lo fa, come a lui è più congeniale, dissacrando con battute fulminanti i luoghi comuni del calcio: “Vuole sapere quale squadra manderò in campo domenica? Ma che ne so…, i primi undici che arri-vano allo stadio”. E se Rocco, quando gli vengono chieste con insi-stenza spiegazioni sulla formazione, è solito attribuire ogni scelta a sua moglie (“Xe una decision de la siora Maria”), Scopigno, ad un giornalista che dall’inizio della stagione gli chiede sistematicamente come mai Brugnera vada sempre in panchina, una volta, estenuato, risponde: “Vuole proprio saperlo? Perché Brugnera ha il culo stretto, e così in panchina stiamo tutti più comodi”.


L’impresa
Grazie ad un incontenibile Riva, il Cagliari vola subito in testa alla classifica, posizione che conserva mantenendo sempre un vantaggio di due-tre punti sulle inseguitrici. Bastano poche giornate perché risulti chiaro quale sia la squadra da battere. Forti, freschi e affama-ti, dopo il secondo posto dell’anno prima, i sardi hanno anche acqui-sito l’indispensabile maturità per puntare al titolo. Se ne accorgono anche le grandi, che capiscono quale grave errore sia stato sottova-lutare gli isolani e concedere, ad una squadra che ha già il miglior attaccante in circolazione, Riva, giocatori del calibro di Albertosi, Nenè e Domenghini. Ma ormai è tardi.
La Sardegna, abituata a guardare ai miti calcistici del continente, si rende improvvisamente conto che il grande calcio ce l’ha in casa. Il Cagliari è primo in classifica e sta mettendo in riga i grandi club del Nord. Scoppia la passione per una squadra che è, insieme, bandiera e orgoglio patriottico, senso di appartenenza e rivalsa sociale. In tutt’Italia vengono inaugurati 'Cagliari Club' da emigrati sardi, sem-pre presenti e numerosi in ogni trasferta continentale. “Quando an-davamo a giocare a Milano o Torino – ricorda Riva – ci chiamavano pastori e banditi, ma eravamo solo la gioia di tanti minatori, operai e camerieri”.
Brera stravede per Riva, combattente aitante, generoso e corag-gioso, praticamente l’antitesi dell’abatino (termine con cui è solito definire giocatori, come Rivera, dotati di molta classe e scarsa po-tenza fisica) che poco digerisce, e non perde occasione per decan-tare le gesta di “Rombo di tuono” – il soprannome che conierà per lui – e del suo Cagliari. Addirittura, il superlatitante Graziano Mesina gli manda una cartolina per ringraziarlo della simpatia con cui segue le vicende della compagine sarda.
Scopigno imposta la squadra secondo il tradizionale modulo all’ita-liana: tre marcatori fissi (Niccolai, Martiradonna e Zignoli) e un libe-ro dietro (Tomasini). Alla 14a giornata, però, Tomasini si infortuna gravemente e, da quel momento in poi, il suo ruolo viene ricoperto dal mediano Cera, con il conseguente inserimento di Brugnera a centrocampo. Ma, nonostante quest’intralcio, il Cagliari prosegue la sua marcia verso il titolo. Albertosi dimostra di essere uno dei più forti portieri al mondo (in quella stagione saranno solo undici le reti al passivo, record ancora imbattuto) e Giggirrivva segna quasi ogni domenica (28 presenze e 21 gol, al termine del campionato), ma è tutta la squadra a girare. Se ne accorge anche Valcareggi, che con-voca in Nazionale ben sei cagliaritani: gli inamovibili Albertosi, Do-menghini e Riva, più Niccolai, Cera (che, nelle vesti di libero, soffia il posto allo juventino Salvadore) e Gori. A detta di molti, meritereb-bero la convocazione anche Greatti e Martiradonna, tuttavia, se l’esclusione del primo è comprensibilmente motivata dalla presenza, in quel ruolo, di mostri sacri quali Rivera, Mazzola e De Sisti, per quanto riguarda il secondo, è il filosofo Scopigno a fornire la sua strampalata spiegazione: “Se avesse un altro cognome, sarebbe già in Nazionale”.
Il Cagliari primo in classifica e ricco di nazionali porta la Sardegna agli onori della cronaca. Da Roma e Milano partono continuamente troupe della Rai alla scoperta di una nuova fetta di Italia ma, in realtà, alla ricerca di quel mondo antico, di quell’immaginario collet-tivo che da secoli rappresenta quella terra. Celebre un servizio che consegna alla storia l’immagine di un pastore della Barbagia che, con un occhio al gregge, è intento ad ascoltare ad una radiolina “Tutto il calcio minuto per minuto”. Ma la Sardegna non corrisponde più (o solamente) all’entroterra deleddiano e ottocentesco di pecore, muli, pastori e vedove a lutto. Un sondaggio rivela che la media di donne che assistono alle partite del Cagliari è del 29% mentre, nel resto d’Italia, negli stadi si registra una presenza femminile pari all’11%. Merito di Giggirrivva, ma anche di tempi che cambiano e dell’at-mosfera che si respira in una città il cui boom economico coincide con il suo periodo di massimo splendore calcistico.
Ma, prima del tricolore, c’è ancora un ultimo ostacolo da superare: la Juventus, sempre lei, seconda a due punti, che attende al varco Riva e compagni. Lo scontro diretto va in scena verso la fine del campionato, a Torino. Si teme il peso politico dei bianconeri. Mezza Sardegna si prepara a vivere quella domenica con il cuore in gola. Davanti a circa 70 mila spettatori (tra cui tantissimi sardi), arbitra Concetto Lo Bello, uomo solitamente vicino al Palazzo ma, in quei giorni, parecchio indispettito per non essere stato designato arbitro italiano ai Mondiali in Messico. Scopigno, che sconta una squalifica di ben cinque mesi per aver mandato platealmente a quel paese un guardalinee, va a sedersi in tribuna. Dopo mezz’ora di gioco, la Juventus passa in vantaggio grazie ad un’autorete di Niccolai (“Uh, mai visto un gol così bello!”, dice il Filosofo, accanto ad un serioso e sbalordito Boniperti). Il Cagliari reagisce e, allo scadere del primo tempo, trova il pareggio con Riva, che supera tre avversari e poi anche il portiere juventino, Anzolin. Si va al riposo con il risultato di 1-1. Ma ai bianconeri non basta e, nella ripresa, cercano di chiudere la partita. Al 66°, Lo Bello concede alla Juventus un rigore dubbio ed espelle, per proteste, il difensore sardo Mancin. Sul dischetto va Haller. Albertosi para. Ma, per l’arbitro, il tiro va ripetuto perché il portiere si è mosso prima. Al secondo tentativo, la Juventus va a segno. Mancano poco più di venti minuti e il Cagliari è in inferiorità numerica. Ancora una volta, lo scudetto sembra prendere inesorabil-mente la via di Torino. Il sogno di un’isola, di migliaia di tifosi sardi presenti al Comunale e di centinaia di migliaia incollati da casa alle radioline, sembra infranto in una manciata di secondi. Albertosi ha una crisi di nervi e piange appoggiato al palo. Riva, questa volta, capisce che lottare come un gladiatore non basta: “Gli ho urlato di tutto - ricorda - ma Lo Bello faceva finta di non sentire. Gli ho anche chiesto cosa avrei dovuto dirgli per essere sbattuto fuori: «Pensi a giocare, c’è ancora tempo», si è limitato a rispondere”. Infatti, po-chi minuti dopo, Giggirrivva entra in area, Salvadore lo blocca irre-golarmente e l’arbitro fischia il calcio di rigore. Alla radio, sono se-condi interminabili. La voce è quella di Enrico Ameri: “Rincorsa di Riva… tiro… parata di Anzolin [gelo] …ma il pallone entra in rete [boato]!!!”. Col senno di poi, si ritiene che il permaloso arbitro sira-cusano, con quella direzione di gara, abbia voluto far venire i capelli bianchi ai potenti della Federazione. In quel momento, però, si pen-sa solo a giocare gli ultimi minuti: ne mancano pochissimi e la Juventus si riversa in attacco. Leggenda vuole che in quei serrati, tesi e agitati attimi finali, Cera, come da prassi, abbia chiesto il tempo: “Quanto manca?”. “A che cosa?”, avrebbe risposto, imper-turbabile, Scopigno. Riportiamo questo aneddoto, ma non senza il beneficio del dubbio: l’allenatore quel giorno è in tribuna, non in panchina. Il dialogo, quindi, risulta piuttosto improbabile. Facile che abbia avuto luogo in qualche altra occasione, oppure che rientri nella mitologia di quella partita. Mitologia o non mitologia, il Cagliari esce dal Comunale imbattuto e può così avviarsi a vincere il suo primo storico tricolore.
Non sembra vero: lo scudetto in Sardegna. “Sì – risponde Scopigno quando gli si fa notare il valore dell’impresa –, lo so che vincere un campionato a Cagliari equivale a vincerne cinque a Milano o Torino. Me lo ha detto Domenghini, che a Milano c’è stato e ce lo ripete sem-pre per far capire che lui è uno importante”.
Quell’anno il campionato finisce prima per permettere alla Nazionale di prepararsi al meglio per i Mondiali messicani. Il 12 aprile, nel vecchio “Amsicora”, il Cagliari riceve il Bari: è la partita che può consegnare matematicamente lo scudetto ai sardi e l’intera isola si mobilita per la grande festa. Ci sono persone che partono dall’en-troterra la sera prima, emigrati che ritornano a casa per l’occasione, nessuno intende mancare a quello storico appuntamento, a novanta minuti di intenso conto alla rovescia. Infatti, già al 39°, il pubblico può cominciare ad esultare per una rete del solito Giggirrivva. Poi, nella ripresa, l’Amsicora è scosso da un secondo boato non appena dalle radioline arriva la notizia del vantaggio della Lazio sulla Ju-ventus. È fatta. Adesso c’è anche la certezza matematica. Quando, a due minuti dalla fine, Gori mette in rete il pallone del 20, la festa è già cominciata, sugli spalti, in città e in tutta l’isola. “Era la festa di tutti – ricorda il giornalista Gianni De Candia –. Cagliari non aveva mai vissuto giorni così felici. Neanche dopo la fine della guerra”.
Riva, Albertosi, Domenghini, Cera, Niccolai, Gori, partono tutti per il Mondiale messicano e saranno tra i protagonisti di quelle che pas-seranno alla storia come le prime notti magiche italiane. Leggen-dario il commento di Manlio Scopigno alla notizia della convocazione del suo rude e generoso difensore, Comunardo Niccolai: “Dalla vita mi sarei aspettato di tutto, ma non di vedere Niccolai via satellite”. Prima ancora che ironica e canzonatoria, quella frase è una magni-fica fotografia del tempo. Citata e ripresa più volte, molti anni dopo darà il titolo ad un romanzo (“Niccolai in mondovisione”) dello scrit-tore-sceneggiatore sardo, Bepi Vigna.
*****
Dopo quasi quarant’anni, quello scudetto è ancora ricordato come fosse ieri. Per la Sardegna è un periodo indimenticabile, così come indissolubile è il cordone che lega il popolo sardo a Gigi Riva, il quale riceverà anche la cittadinanza onoraria di Cagliari. “Una volta – racconta – sono entrato a casa di una vecchietta, a Seui. Sul muro, accanto alle foto dei suoi familiari, era appesa anche una mia fo-tografia. In quel momento ho capito che davvero consideravano an-che me uno della famiglia”.